Ancora tagli all’università?
A leggere tra le righe della legge di stabilità sembra proprio di sì, nonostante le promesse di Letta e del ministro Carrozza
di Francesco Buscemi – @ilbuscemi
Il 5 maggio 2013, nel corso di un’intervista a Che tempo che fa, Fabio Fazio chiese a Enrico Letta se poteva garantire che la cultura non avrebbe subito ulteriori tagli. La risposta del Presidente del Consiglio fresco di fiducia fu:
«Mi prendo l’impegno. Io mi dimetto se dobbiamo fare dei tagli alla cultura, alla ricerca, all’università».
Effettivamente, con il cosiddetto Decreto del FARE il Governo cominciò già a invertire la tendenza rispetto ai tagli del passato. Tra i suoi articoli, infatti, l’art. 58 c. 1 eliminava uno dei meccanismi principali nell’azione di riduzione della spesa universitaria messa in opera da Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti nel 2008, cioè i rigidi criteri per sostituire i pensionati con nuovi assunti (il cosiddetto turn over). La questione è piuttosto tecnica, ma scendere nel dettaglio aiuta a capire come vengano scritte le leggi – e quelle che impongono tagli in particolare.
Il governo Berlusconi aveva stabilito nell’estate de 2008 che nel triennio 2012-2014 le università statali potessero assumere personale a tempo indeterminato e ricercatori a tempo determinato “nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al venti per cento di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell’anno precedente”. Per farla semplice, questo voleva dire che se dieci professori andavano in pensione in un’università, questa poteva assumerne solo due per sostituirli.
Così ha funzionato il meccanismo dei tagli all’università e il conseguente impoverimento dei dipartimenti: se smettono di lavorare un matematico, un chimico, uno storico, un fisico teorico, un fisico sperimentale, uno storico della letteratura francese, un filosofo, un latinista, un archeologo e un sociologo, ma l’università può assumere solo due persone, quanti dipartimenti saranno costretti a chiudere o a tirare a campare per mancanza di personale? Il freno alle assunzioni (o “blocco del turn over”) doveva passare al 50 per cento nel 2015 e sparire nel 2016. I soldi non spesi in stipendi di nuovi ricercatori e professori corrispondevano agli ingenti tagli all’università che l’agenda Tremonti-Gelmini prevedeva di applicare, e che furono in gran parte applicati (meno 63,5 milioni per il 2009, meno 190 milioni per il 2010, meno 316 milioni per il 2011, meno 417 milioni per il 2012, meno 455 milioni per il 2013).
Con il decreto del FARE, Letta e Carrozza cambiarono in effetti rotta. Il blocco del turn over venne ridotto alzando il “ricambio” al 50 per cento già per il 2014, mantenendo il ritorno al 100 per cento nel 2016. In un’intervista all’ANSA del 22 agosto 2013, la ministra definì il provvedimento in maniera entusiastica, subito dopo la sua conversione in legge:
« una svolta storica e che crea nuove opportunità di reclutamento per i giovani».
Secondo i calcoli di Maria Chiara Carrozza, solo questa misura avrebbe consentito l’assunzione di 1.500 ricercatori di tipo B e circa 1.500 professori ordinari.
Il provvedimento fu accolto con molta fiducia dal mondo dell’università, soprattutto da quella generazione di giovani e non più giovani ricercatori precari ancora in attesa di capire se riuscirà o meno a ottenere un posto di ruolo. Fino a quando il governo ha consegnato alle Camere il testo della legge di stabilità.
La nuova legge finanziaria prevede per il prossimo anno un aumento del fondo di finanziamento ordinario (FFO) dell’università di 150 milioni. La misura è stata presentata sulle agenzie di stampa come un’inversione di tendenza rispetto al passato. A un’attenta lettura della legge, però, l’associazione ROARS (Return On Academic ReSearch) ha denunciato che le cose sembrano non stare esattamente così. Nelle pieghe della legge, infatti, è scritto nero su bianco che l’aumento dell’FFO è accompagnato però da una riduzione del turn over fino al 2018, cioè due anni in più di quelli previsti dal decreto Gelmini. Con le modifiche di questa prima legge di stabilità di Letta e Saccomanni, il ricambio alle università è così regolato:
«Per il biennio 2012-2013 il sistema delle università statali può procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato di ricercatori a tempo determinato nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al venti per cento di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell’anno precedente. La predetta facoltà è fissata nella misura del cinquanta per cento per gli anni 2014 e 2015 del sessanta per cento nell’anno 2016, dell’ottanta per cento nell’anno 2017 e del cento per cento a decorrere dall’anno 2018».
Se avete letto con attenzione i paragrafi precedenti, avrete notato che con lo stesso provvedimento (limitazione al turn over), Maria Stella Gelmini e Tremonti avevano provveduto a tagliare radicalmente i fondi all’università. Così sembrerebbe aver fatto anche il governo Letta. Come può combinarsi un tale provvedimento con un aumento formale del fondo di finanziamento ordinario per quest’anno?
La risposta sembra stare in una glossa del governo che spiega la logica del provvedimento. Il commento governativo è contenuto in una bozza annotata dal governo e datata 13 ottobre 2013 (qui il testo in PDF):
“RIDUZIONE FFO
I risparmi indicati sono comprensivi delle economie relative al settore università per 28 mln per l’anno 2016, 70 mln di euro per l’anno 2017 e 84 mln di euro a decorrere dall’anno 2018, in relazione alle quali va prevista una contestuale riduzione del FFO”.
Facendo un po’ di somme, il governo interviene rifinanziando le università con 150 milioni nel 2014, ma prevedendo risparmi per 182 milioni da qui al 2018.
La legge di stabilità deve passare ora all’esame del parlamento, che potrebbe modificarne in alcuni punti. Fino a questo momento, però, non pare che la questione del finanziamento alle università sia entrata in discussione. Maria Chiara Carrozza, criticata da molti utenti su Twitter, ha liquidato le critiche ripetendo che è un’inversione di tendenza portare a 150 milioni l’FFO, ma senza dire una parola sul turn over. Intervistata sulla Stampa qualche giorno dopo la presentazione della legge di stabilità, addirittura, la ministra è intervenuta contro il blocco del turn over, ma senza che né lei né la giornalista notassero che proprio la sua legge lo prorogava fino al 2018:
«Il blocco del turn-over è stato drammatico per l’università e ancora di più per la scuola. È stato un muro che ha bloccato ogni possibilità di rinnovamento. Io invece penso che sia necessario garantire un cambiamento in base a selezioni che seguono criteri internazionali».
A rendere ancora meno credibile la politica ministeriale non bastava il cambiamento di una norma così importante solo due mesi dopo averla modificata in altro modo (dal decreto del FARE del 21 agosto alla legge di stabilità di quest’autunno): c’è una seconda questione che sta causando altre polemiche proprio in queste ore e che è collegata a uno dei meccanismi con cui il ministero aggiusta le norme sul turn over. Il 17 ottobre, infatti, il Ministero dell’Università e della Ricerca ha pubblicato sul suo sito il decreto ministeriale che assegna ad ogni ateneo “i punti organico”, cioè la quota di nuove assunzioni a sua disposizione. Secondo le tabelle ministeriali, un punto organico vale un professore ordinario, lo 0,7 di un professore associato o due ricercatori. L’assegnazione ministeriale dovrebbe servire a premiare gli atenei virtuosi, dando loro un piccolo bonus oltre il 20 per cento standard previsto per legge.
Il decreto firmato da Maria Chiara Carrozza porta all’estremo questa logica di correzione e con vari passaggi di matematica finanziaria crea squilibri tali per cui alcuni atenei per il prossimo anno godranno di fatto di un turn over altissimo, mentre altri vedranno la loro quota ridursi a molto meno del già scarsissimo 20 per cento. La questione è ben riassunta ancora dalla redazione di ROARS qui, ma anche la CGIL è intervenuta chiedendo una modifica. La ministra ha replicato che “è la legge del merito” e che l’assegnazione attuale premia gli atenei migliori d’Italia.
In realtà, rispetto all’applicazione della stessa norma negli anni scorsi, il ministero a guida Carrozza ha eliminato la norma a salvaguardia delle università in difficoltà, com’è ben spiegato qui. Se gli interventi nella legge di stabilità avevano deluso il mondo della ricerca e i precari italiani, questo decreto è stato vissuto con ancora maggiore disagio, visto che è proprio l’ateneo di cui la ministra era rettore, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa a guadagnarci di più, con un turnover al 212 per cento.
Facciamo un esempio per rendere un po’ più chiara questa complessa situazione. In assenza del blocco del turn over, l’università di Napoli “Federico II” avrebbe avuto più o meno 143 punti organico, equivalenti a circa 143 ordinari che andavano in pensione per l’anno 2012. Con il turn over al 20 per cento quei punti organico scendevano a poco più di 28. Applicando l’indicatore imposto dal decreto ministeriale della ministra Carrozza, i punti per l’ateneo napoletano scendono ancora di più, fino a 9,8. Per questo stesso anno, i pensionamenti totali del S. Anna hanno prodotto 2,25 punti organico, ma con l’intervento della ministra ex-rettrice, la sua università si trova ora con 4,79 punti organico e può quindi più che raddoppiare la sua percentuale di assunzioni per il nuovo anno. Maria Chiara Carrozza dice su Twitter di non accettare insinuazioni sul suo operato, ma non nega l’evidenza di questi dati su cui la sollecitano anche molti rettori, pronti a fare ricorso al TAR.
Proprio stamattina, 29 ottobre, durante la sua audizione al Senato, il presidente designato della Corte dei Conti Raffaele Squitieri ha così commentato la legge di stabilità, nelle parti che ci interessano qui:
«Le norme in materia di personale pubblico ripropongono una tipologia di interventi, basata sul blocco del turnover e sul rinvio dei contratti, già ampiamente praticata. Si tratta di misure severe, che hanno dato un contributo rilevante al processo di risanamento della finanza pubblica ma che non sono replicabili all’infinito».
L’università pubblica italiana pare essere già arrivata al suo limite di tolleranza.
Foto: Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Maria Chiara Carrozza
(Mauro Scrobogna /LaPresse)