Democrazia e disordini, in Turchia
Filippomaria Pontani racconta le velleità di Erdogan, gli scontri negli stadi di calcio, e come la "democratizzazione" implichi una perdita di laicità dello Stato
di Filippomaria Pontani
Domenica 22 settembre c’erano tre grandi derby in giro per l’Europa, quelli di Roma, Manchester e Istanbul. I primi due hanno attratto l’attenzione per via del risultato sul campo, mentre il match fra Besiktas e Galatasaray ha riservato sorprese d’altra natura: al termine di un’esibizione tecnicamente poco memorabile, decisa da alcune delle vecchie glorie che affollano le rive del Bosforo (vantaggio di Hugo Almeida, ex Porto e Werder, e rimonta con doppietta di Drogba), uno dei consueti fallacci di Felipe Melo ha suscitato le ire dei tifosi bianconeri, già mortificati per lo svantaggio che paventavano irreversibile: di qui una massiccia invasione di campo, in pieno tempo di recupero, con seggiolini divelti e preoccupanti scene di violenza. Non interessano qui i postumi sportivi, quali la vittoria a tavolino, le indagini della Federcalcio turca, la punizione esemplare inferta alla squadra ospitante, o la singolare cacciata del vincitore Terim dalla panchina del Galatasaray (forse dovuta alla disfatta maturata pochi giorni prima contro il Real Madrid, o a dissapori d’altro tipo con la società): più importa sapere che l’intero incidente ha avuto una sicura dimensione politica.
Secondo alcuni la tifoseria del Besiktas, altrimenti conosciuta per aver capeggiato parte delle rivolte estive di piazza Taksim contro il governo turco, e addirittura per un tentativo di assalto alla residenza del premier nel giugno scorso, avrebbe colto l’occasione per ribadire a una vasta platea (quel derby era in fondo la partita più attesa del campionato) la propria insubordinazione al potere; secondo altri, le violenze sarebbero state al contrario perpetrate a tradimento da infiltrati della polizia, desiderosa di avere un cospicuo pretesto per avviare potenti retate punitive contro gli oppositori. Comunque sia, il controllo delle curve, come mostra anche una recentissima operazione condotta contro i turbolenti supporters della terza squadra cittadina, il Fenerbahce, appare un elemento essenziale per stabilire l’autorità del governo centrale.
Così, quando arrivano le prime notizie del “piano di democratizzazione” varato lunedì 30 settembre da Recep Tayyip Erdogan, mi trovo nell’estremo sud-est della Turchia, ad Harran, dove quasi 1500 anni fa, sotto le arcate oggi dìrute di un’accademia fantasma, si traducevano testi astronomici e filosofici dal greco in siriaco, propiziando fra l’altro la tappa araba del lungo viaggio della sapienza antica nella cultura occidentale. Qui oggi, dinanzi al muto commento di un confine chiuso che corre a non più di venti chilometri, occheggiano sul bianco sterminato dei campi di cotone le tende dei fuggiaschi siriani, gli stessi che ti servono il tè nelle case del circondario, o che talora cercano la fortuna negli alberghi della vicina Urfa, o – sempre più spesso ormai, a distanza di mesi – nei sobborghi della più lontana Istanbul (quelli mirabilmente descritti dal film che ha vinto l’ultimo Tribeca, Before Snowfall del regista curdo Hisham Zaman). Se il confine che corre invalicabile non ha senso nella storia profonda dei luoghi (la temperatura, i tavolini, l’eredità seleucide, il melting-pot secolare tra Cristianesimo e Islam, e perfino i sornioni cammelli all’abbeveratoio, sono i medesimi che si ritrovano nella sottostante piana di Aleppo, per come me la ricordo quando il minareto della moschea era in piedi e nella piazza vendevano il succo di amarena), per contro il brulicare dei campi profughi denuncia da un lato le proporzioni della tragedia in corso, dall’altro il non-detto che copre certi aspetti di una guerra intricata, che ha deluso le spesso ingenue aspettative dell’Occidente.
Circa le proporzioni, viene spontaneo – per mera analogia – pensare ai profughi palestinesi ancor oggi sparsi all’ombra dei cedri su e giù per il Libano, decenni dopo la crisi che li produsse – una mina irrisolta sotto la fragilissima stabilità del Vieux Pays, da Tripoli dove saltano in aria le moschee a Tiro dove le truppe ONU hanno sempre meno il controllo della situazione: e se anche in Turchia queste persone dovessero restare per anni, alterando gli equilibri di zone già di per sé delicate? Quanto al non-detto, poi, emerge prepotente il problema dei danari: un piano d’accoglienza pensato in origine per 10-20mila persone si è trovato in breve volgere di tempo a gestirne 400mila, eppure da mesi le risorse ci sono, i campi non chiudono, i profughi vengono rimpatriati col contagocce, Ankara sembra pronta a pagare all’infinito. Con quali fondi, con quali bilanci, il popolo turco lo ignora: e non è forse impertinente la domanda del principale partito di opposizione (il kemalista CHP), che sospetta buste segrete rifornite di soldi oscuri, canali occulti di finanziamento statale non solo diretti ai poveri profughi spersi fra le piante di cotone, ma anche ad alcuni degli attori principali del conflitto oltreconfine, non necessariamente i più affidabili – per esser chiari, forse più i terroristi di Al-Qaeda che non i ribelli sempre più spaesati. Che questa sia l’accusa mossa a Erdogan non solo dall’opposizione interna ma anche dal governo di Assad, che è parte in causa, non cambia la plausibilità dello scenario: anche perché gli altri Paesi tacciati di cospirazione (Qatar, Arabia Saudita, Gran Bretagna e Francia) non confinano con la Siria in guerra. E caso mai ci fossero dubbi circa la posizione assunta dal governo turco in questa vicenda, basta passare la sera dinanzi alla grotta sacra dove secondo i Maomettani nacque Abramo, nel cuore di Edessa (o Urfa, o Sanliurfa, “Urfa la gloriosa” come l’ha ribattezzata il nazionalismo turco nel 1984), e vedere sciorinate su vasti cartelli al pubblico ludibrio le foto dei massacri chimici di Damasco, corredate di esortazioni a tutti i Musulmani (siamo alle porte di una moschea) a vendicare i tormenti inflitti dal dittatore Assad al suo popolo.
La Turchia, forte di un’economia meno afflitta dalla crisi (ma i debiti iniziano pian piano ad assumere proporzioni preoccupanti) e di un esercito da sempre numeroso (ma nel contempo confinato a semplici azioni dimostrative come l’abbattimento di un elicottero che sconfina, e incapace invece di intervenire sensibilmente nella guerra alle porte di casa, a differenza per esempio delle agili milizie di Hezbollah), è una potenza cardine nel dramma del Medio Oriente, e le sue recenti mosse nel mosaico siriano sembrano confermare la direzione della sua politica internazionale: se il ministro degli Esteri dichiara ormai apertamente, e non senza supponenza, il disinteresse nei confronti del processo di avvicinamento e possibile adesione all’Unione Europea – un processo troppo lento, e osteggiato da tanti Paesi occidentali anche ben al di là della questione aperta di Cipro -, gli sguardi si dirigono al contrario verso un mondo mediorientale in pieno fermento, in cui Erdogan mira a posizionarsi in maniera chiara e decisionista, a costo di aprire fronti di dissidio con gli stati vicini. I malevoli, tuttavia, osservano che tra Grecia, Siria, Israele, Iraq, Iran, Armenia e Russia, vi sono ormai ben pochi governi limitrofi con cui il leader turco non si sia scontrato in termini vivaci, o presso i quali non abbia confermato più o meno apertamente la propria riluttanza al dialogo (si pensi alla negazione del genocidio armeno, alla sordità sulla questione di Nicosia, alla timidezza dei tentativi di ricucire con Israele dopo la Flotilla del 2010, o anche ai problemi di dialogo con il governo shiita dell’Iraq): rimanere senza alleati dietro la porta, in Medio Oriente, non è secondo alcuni una buona idea, ma Erdogan, al di là di singoli strappi di facciata (l’acquisto di una partita di armi dalla Cina), conta in realtà per ogni cosa sull’appoggio del suo storico protettore, gli Stati Uniti d’America.
Di certo gli Stati Uniti, memori delle loro incaute mosse degli anni ’80 in Mesopotamia, dovrebbero porsi qualche domanda circa l’evoluzione del regime che stanno lautamente favorendo da anni ad Ankara. L’impressione del viaggiatore, infatti, è che negli ultimi anni l’eredità di Kemal Atatürk – il quale pure campeggia ancora nelle gigantografie sparse ad ogni angolo del Paese, e parla tramite le gnomai cubitali incise su muri e colline – abbia subito un profondo mutamento, venendo ammaccata in uno dei suoi tratti salienti, ovvero il carattere laico della Repubblica. Non è soltanto una questione di donne velate (benché un giro tra Erzurum e Kars e Konya, anche solo a camminare per le strade, possa rivelare scenari alquanto diversi dalla rutilante vetrina stambuliota): le leggi o le prassi giurisprudenziali contro le donne che denunciano di aver subito violenza, gli alcolici coperti da ipocrite dissolvenze nelle telenovelas più seguite, le scuole coraniche che tornano a riempirsi di bambini, i giovani biancovestiti che scacciano con ringhiose minacce l’ordinato turista occidentale nel cortile della moschea di Diyarbakir, la saldatura sempre più evidente fra pezzi del potere statale e àmbiti di tradizionale pertinenza degli imam… È su questo sfondo che va letto il pacchetto di “democratizzazione” lanciato con grande pompa da Erdogan, dopo che per tutto il weekend precedente i viaggiatori dei bus di linea attraverso l’Anatolia si erano sorbiti i suoi interminabili annunci e discorsi puntigliosamente trasmessi in diretta alla tv.
Si tratta di un progetto che si riallaccia alle mosse già compiute negli anni scorsi (l’AKP è al potere dal 2002) nella direzione di un depotenziamento dell’esercito (il vero tutore del laicismo, decapitato con una serie di arresti e un processo assai opinabile tra il 2008 e l’agosto scorso) e in vista di una riforma dei principi fondanti della Costituzione laica di Kemal. Democratizzare il Paese per il premier turco significa consentire alle dipendenti pubbliche (tranne magistrate e poliziotte) di andare al lavoro con il velo, significa prevedere la reclusione fino a 3 anni per chi in qualche modo “ostacola il compimento di atti religiosi”, significa inasprire le pene per i crimini basati sull’odio religioso o razziale, significa far mostra di facilitare il diritto di manifestare mentre nella pratica si intimidisce la stampa di opposizione, significa formulare proposte per una riforma elettorale che da un lato paiono favorire una maggiore rappresentatività abbassando la soglia di sbarramento (che oggi è al 10%), dall’altro però – tramite una complessa ridefinizione dei collegi, dove si voterebbe su base maggioritaria – finirebbero per incrementare de facto il vantaggio del partito al potere in termini di seggi. Democratizzare significa anche, per Erdogan, liquidare il dialogo con le altre confessioni regalando un po’ di terra a un monastero cristiano siriaco, cambiando il nome a un’università per compiacere gli Aleviti (setta islamica che conta milioni di adepti in Turchia, e aspetta invece da anni un riconoscimento ufficiale del proprio culto, assai più tollerante e aperto di quello sunnita maggioritario), creando un centro studi sulle tradizioni dei Rom, e restituendo ai Curdi la possibilità di usare le lettere “q”, “w” e “x”, che fino ad oggi erano bandite (le aperture al riconoscimento del curdo come lingua di insegnamento nelle scuole sono state per ora prevedibilmente assai più timide e circoscritte).
In un Paese che negli ultimi anni è stato capace di progettare dighe e ponti e città, e di costruire anche nella sterminata Anatolia stazioni e musei e ospedali tali da incutere un’ammirata frustrazione negli abitanti del nostro Mezzogiorno, le vere libertà democratiche non sono ancora all’ordine del giorno: certo, sono stati corretti alcuni errori dei precedenti governi kemalisti (soprattutto per quanto riguarda lo strapotere dei militari e le atrocità commesse nei confronti dei Curdi, che pure non sono del tutto cessate); ma a Istanbul non si possono piangere i militanti di sinistra morti nella lotta contro lo strapotere delle gang di spacciatori, a Trebisonda non si può parlare apertamente del genocidio armeno, così come ad Antiochia, una delle capitali della Tarda Antichità e del Cristianesimo delle origini, non si può liberamente commemorare chi ha perso la vita, in circostanze più o meno chiare, per esprimere il proprio dissenso nei confronti del potere.
Le rivolte di Gezi Park, riprese da sparsi focolai nelle settimane scorse, sono ancora il fatto saliente della Turchia di oggi, che nessun autoproclamato pacchetto di democratizzazione riuscirà a sopire: in tal senso, è lecito attendersi nel prossimo futuro altri episodi eclatanti negli stadi e nelle strade, e forse ancor più operazioni condotte nell’ombra da un regime sempre più timoroso di perdere la propria sicurezza e una sognata, forse malposta ambizione di grandeur.
(foto: tifosi del Besiktas invadono il campo durante il derby tra Besiktas e Galatasaray allo stadio Ataturk di Istanbul, il 22 settembre 2013; REUTERS/Stringer)