Il business delle petizioni online
Sebbene lo possano sembrare, a volte i siti che le ospitano non sono "non profit": e ottengono entrate considerevoli grazie ai dati di chi firma
Se avete una casella email o un profilo su Facebook, è probabile che a un certo punto negli ultimi anni vi sia stata sottoposta una petizione online da qualcuno dei vostri amici, che vi proponeva di firmarla. Se questo è successo negli ultimi mesi, è probabile che il sito su cui era ospitata la petizione fosse Change.org: è sicuramente uno dei più utilizzati, è quello che ha ospitato di recente la petizione di Dario Fo sul caso Barilla (58.000 firme) ed è quello che negli Stati Uniti ha ospitato quella riguardo la morte di Trayvor Martin, un ragazzo 17enne ucciso in Florida. Quella petizione fu firmata da 2,2 milioni di persone ed ebbe un qualche ruolo nelle pressioni sulle autorità, che decisero poi di arrestare e incriminare per l’omicidio di George Zimmerman (poi assolto per legittima difesa).
Qualche giorno fa il sito dell’edizione statunitense di Wired ha pubblicato un’inchiesta di Klint Finley su Change.org, corredata di molti dati. Wired scrive che Change.org gestisce in media più di 25 mila petizioni al mese e i dati di circa 45 milioni di utenti. Ben Rattray, presidente e fondatore del sito, ha detto che il sito è «una piattaforma totalmente aperta che si sta rapidamente diversificando: alcune delle petizioni che ospitiamo sono addirittura in competizione l’una con l’altra». Il meccanismo è semplice: chiunque può registrarsi al sito e avviare, gratis, una petizione riguardo un determinato tema, stabilire degli obiettivi per la sua riuscita e promuoverla invitando quante più persone a sottoscriverla, attraverso i social network.
Quello che a molti non è chiaro, scrive Finley, è che Change.org non è una società non profit: e anzi guadagna «una spaventosa quantità di soldi» grazie alle informazioni che ricava da chi firma le petizioni, rendendo il suo comportamento simile a quello di Google. Change.org è una società Benefit-profit, cioè una società “interessata al bene comune” che però fa profitti: secondo la responsabile della comunicazione, Charlotte Hill, è «una società che si ispira a una missione sociale, e sebbene abbiamo delle entrate le reinvestiamo al 100 per cento nella nostra missione di dare potere alla gente normale. Abbiamo deciso volontariamente di non fare profitti». In soldoni: una società tecnicamente a scopo di lucro che però ha deciso – per il momento, almeno – di reinvestire gli utili provenienti da Change.org nel rafforzamento e nel miglioramento di Change.org. Altre società di questo tipo hanno scelto di rimanere non profit, come MoveOn o Avaaz, mentre Care2 è strutturato come un social network e già nel 2006 generava profitti per 5,9 milioni di dollari.
Da dove arrivano i soldi
La società che gestisce Change.org accumula molte informazioni sui suoi utenti, cioè su chi crea e firma le petizioni: aggregando i dati ha scoperto, per esempio, che se hai firmato una petizione in difesa dei diritti degli animali hai più del doppio delle probabilità – rispetto alla media – di firmarne una sulla riforma della giustizia penale, e più del quadruplo di sottoscriverne una in favore di una riforma dell’immigrazione e del sistema scolastico, e così via. A ogni petizione sottoscritta da un utente, Change.org ha un numero crescente di informazioni a suo riguardo, che usa per creare delle “raccomandazioni” – proprio come fa Google con i propri annunci pubblicitari. Il sito può decidere di raccomandare una petizione che intuisce interesserà a un particolare utente oppure raccomandare le “petizioni sponsorizzate”: cioè i cui promotori versano soldi a Change.org in cambio di maggiore visibilità.
Nel momento in cui si firma una petizione, inoltre, Change.org mostra una serie di campagne sponsorizzate, ognuna delle quali include un quadratino dove spesso viene messa in automatico una spunta sulla voce “Tienimi aggiornato su questa campagna”. Una volta sottoscritta la petizione iniziale, l’indirizzo email dell’utente viene girato da Change.org alla società che sponsorizza la petizione secondaria, che le paga un corrispettivo. Una volta fatto ciò, inoltre, i dati dell’utente non sono più coperti dalla copertura sulla privacy di Change.org, e la società che è entrata in possesso dei dati di un particolare utente può farne quello che vuole, incluso rivenderli a terzi.
Clay Johnson, che nel 2004 fondò la società di consulenza che si occupò del noto sistema di “targeting” (cioè di individuazione del messaggio più efficace a seconda del destinatario) della campagna elettorale di Barack Obama, ha detto a Finley che l’efficacia politica delle petizioni online è tutta da dimostrare, e che a suo parere esistono con l’unico scopo di raccogliere soldi altrove. A suo dire anche il dominio .org genera molta confusione negli utenti: «Credo che la gente ipotizzi che sei un’organizzazione non profit, se il tuo sito termina con “.org”». Al posto che firmare una petizione online, conclude, sarebbe meglio mettersi in contatto con il proprio rappresentante eletto competente in materia: un consigliere comunale o regionale, un parlamentare.