Chi ripara la Grecia
La cronaca degli interventi "draconiani" sul settore pubblico e sull'evasione di capitali già fuggiti, e la precaria ricostruzione di un progetto di sinistra alternativo
di Filippomaria Pontani
Soffre, la Venere di Milo. Sui muri di Atene il writer francese Goin la rappresenta coronata delle spinose stelle dell’Europa Unita, e sanguinante. Nel museo di Mykonos la pittrice greca Chryssa Vassilopulu completa il suo braccio destro effigiandola come una cameriera con un vassoio Coca-Cola al servizio delle banconote di Francoforte. Il “redde rationem” delle ultime settimane, iniziato con la chiusura della televisione nazionale ERT e precipitato fino alle ultime misure di austerità indotte dalla trojka dei creditori (BCE, FMI, UE) e asseverate dalla visita del ministro tedesco Schäuble, è a giudizio di molti decisivo non solo per il futuro del governo Samaràs, ma per l’intero assetto politico della Grecia.
Il problema non sta tanto nella defezione dalla compagine ministeriale del più piccolo dei tre contraenti di maggioranza, l’indeciso partito di “Sinistra democratica” (Dim.Ar.), che garantisce per ora un discontinuo appoggio esterno alle misure dell’esecutivo, il quale quindi si regge sul solo compromesso storico fra i due antagonisti d’un tempo, ovvero i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Dimokratìa. Il fatto nuovo sta nell’entità e nella tipologia delle misure che vengono finalmente prese, ovvero in quella raffica di licenziamenti nel pubblico impiego, che era a ben vedere il vero obiettivo di tutto l’esperimento neoliberista pomposamente chiamato “salvataggio della Grecia” (bastava leggere i giornali tedeschi del 2010, e ravvisarvi la satira stizzita nei confronti di un popolo di parassiti).
Sebbene non vi siano dubbi – nemmeno nell’elettorato – circa l’ipertrofia della macchina statale greca e l’opportunità di un qualche intervento per snellirla e migliorarne l’efficienza, nessuno crede che i 12.500 posti oggi sacrificati sull’altare delle richieste della trojka siano destinati a essere sufficienti, o gli ultimi, anche perché gli indicatori economici (le entrate fiscali, il PIL, la produzione) sono così negativi che l’avvitamento nella recessione e nel disavanzo potrebbe giustificare qualunque ulteriore misura iugulatoria (“Non ti preoccupare: sono le ultime misure”, recita una vignetta del giornale di sinistra “Avghì” dove si vede una donna bendata – la Grecia – che cammina verso l’orlo di un burrone: il gioco è fra i due sensi di “metro” in greco, “misura” appunto, ma anche – come da noi – “metro”. Ma soprattutto, sul piano procedurale colpiscono da un lato la sordità dei politici ai tutori della Costituzione repubblicana (un organo preciso, il Consiglio scientifico del Parlamento) che denunciano evidenti profili di illegittimità nei tagli al personale come si sono fin qui profilati, dall’altro il totale esproprio del Parlamento, che non verrà nemmeno chiamato a votare i provvedimenti in questione, spacciati per “Decreti presidenziali” e dunque sottratti all’alea e agli umori di un’aula legislativa sempre più insofferente e irrequieta, dietro le pressioni delle lobbies e delle piazze.
Perché qui si tratta di scegliere chi mandare a casa, quali categorie di impiegati a tempo indeterminato lasciare da un giorno all’altro senza un salario, e quali altri impiegati trasferire a forza ad altro ufficio o ad altra città (forse nella speranza che rifiutino e si licenzino), oppure costringere a miseri “part-time”. La prima scelta ha riguardato (potenza della fantasia) diverse migliaia di impiegati del sistema dell’istruzione: oltre ai trasferimenti obbligati (da un istituto all’altro, o da un grado all’altro, di norma inferiore) previsti per circa 8000 docenti, verranno licenziati in tronco almeno 3500 insegnanti, soprattutto afferenti agli istituti tecnici (che vedranno così drasticamente ridotta la varietà e la specificità dei loro curricula di studio; viene quasi spazzata via l’istruzione in campo sanitario), e poi oltre duemila “guardie scolastiche”, ovvero quei vigili urbani che in Grecia sono preposti alla sicurezza degli edifici scolastici di ogni ordine e grado.
Sulla necessità o meno di queste guardie scolastiche si potrebbe lungamente discutere, sta di fatto che esse ci sono e hanno un ruolo importante nell’apertura dei portoni delle scuole ogni mattina: la questione che le riguarda è in sé emblematica, non solo in quanto ha scatenato le proteste dei genitori che temono per la sicurezza dei loro figli, per le possibili difficoltà nell’inizio del nuovo anno, e per l’eventuale chiusura di interi istituti in virtù dell’accorpamento – ora previsto per legge – di più classi in classi più numerose (modello Gelmini), ma anche perché ha dato il destro ai neonazisti di Alba dorata per offrire gratuitamente il proprio aiuto organizzato e costante nella sorveglianza delle scuole e nella tutela delle giovani menti. La proposta, per ora respinta a livello ufficiale, è ben possibile attecchisca nelle realtà locali più degradate, sulle quali il controllo del governo è di giorno in giorno più tenue: se accadrà, l’Europa – di concerto con le istituzioni di un Paese allo sbando – potrà fregiarsi di avere spedito dei picchiatori con la testa rasata a sorvegliare gli studi liberali dei giovani di Grecia, esattamente come può già vantarsi di aver privato i disoccupati greci dell’assistenza sanitaria e di averli resi dipendenti da ambulatori sociali di fortuna installati qua e là alla macchia, mentre il 40% delle cliniche private (defraudate retroattivamente dei rimborsi che spettavano loro) è destinato alla chiusura, e i bilanci degli ospedali vengono presi in mano e ristrutturati con passione da oculate società private di consulenza.
E poi, accanto agli educatori, è la volta di migliaia di dipendenti dei comuni e dei ministeri (tradizionali sentine di corruzione, di imboscamenti e impieghi truffaldini) e – a partire da settembre – di almeno 3500 poliziotti (vengono anzitutto sciolti i corpi delle polizie municipali – di qui la veemente protesta dei sindaci -, riuniti nell’unico corpaccione della Ellinikì Astinomìa). In un Paese la cui disoccupazione viaggia verso il 28% (questa la previsione dell’OCSE per il 2014), le franchigie previste dal decreto sui licenziamenti (sono esclusi gli invalidi sopra il 67%, i coniugi di licenziati, i membri di famiglie numerose secondo certi criteri) non lasciano tranquillo quasi nessuno, anche perché la priorità data ai dipendenti assenteisti, agli indisciplinati, agli “improduttivi” (secondo quali parametri?) sarà ben lungi dall’esaurire i quantitativi necessari.
Per questo Nea Dimokratìa, il partito di maggioranza relativa, cerca di introdurre criteri d’altro tipo, per esempio preservando chi ha una laurea, o almeno chi ha un dottorato, o per lo meno chi ha fatto due master, o se proprio proprio non si può almeno chi ha 3 figli a carico, in un rincorrersi grottesco di tentativi di esenzione che cozzano sistematicamente contro le necessità contabili e sfociano nelle acri vignette in cui il ministro dell’Economia proclama dalla sua augusta tribuna che verranno trattenuti al lavoro i bidelli in possesso di un dottorato di ricerca e i poliziotti in odore di Nobel. Ci sono notizie anche per chi rimarrà al lavoro con il salario minimo (586 euro): forse tale retribuzione non scenderà, ma molto probabilmente verrà svincolata per legge dal tetto delle 8 ore di lavoro al giorno per 5 giorni a settimana, in nome – recita un disegno di legge in via di approvazione – di una maggiore “flessibilità”, quella che fa leva sulla fame nera e sulla paura blu.
E in costanza di tutto questo, la furia quasi spasmodica con cui il governo vara strette draconiane sull’evasione fiscale (ricevute online, contanti proibiti sopra i 1500 euro, più poteri alla finanza, tasse elevatissime su barche e auto di grande cilindrata) e privatizzazioni selvagge (le ferrovie pubbliche Trainose, peraltro in buono stato di salute, vengono svendute ai Cinesi o ai Russi per 300 milioni, e lo Stato s’impegna comunque a garantire lui 50 milioni all’anno per le tratte improduttive), dà l’idea di un tardivo annaspare alla ricerca di un ossigeno migrato da tempo verso atmosfere più confortevoli e sicure, di una ricchezza scoperta quando non è più tempo.
“Hai nascosto, Evànghelos, la lista di Lagarde / e ora bevi il tuo caffè con 5 bodyguard”: a Creta hanno il gusto delle “mantinades”, dei distici in rima baciata che risalgono al Rinascimento, e oggi vengono piegati allo sfottò dei politici: “Evànghelos” è il segretario del Pasok Venizelos, già protagonista dello scandalo della “lista Lagarde” dei maxi-evasori greci, lista che il pingue leader socialista avrebbe contribuito a occultare insieme ai nomi di diversi compagni che vi figuravano, e ora trionfante quanto incauto sbandieratore (insieme al serafico ministro Sturnaras) dei “successi” attestati da qualche indicatore economico, secondo cui la Grecia sarebbe in ripresa; i suoi “bodyguard” sono quelli che, fuori dal perimetro presidiato del Parlamento, proteggono lui, così come il premier Samaràs (atteso da ben altri tappeti l’8 agosto nell’udienza privata alla Casa Bianca) e buona parte dell’arco costituzionale ellenico, dalla furia della gente sempre più stanca e impotente, ormai incattivita e sfiduciata perfino nelle manifestazioni democratiche di piazza e negli scioperi generali, che da tre anni a questa parte si sono succeduti con regolarità e con la stessa drammatica inconcludenza, e che oggi registrano adesioni via via calanti.
Uno degli aspetti più inquietanti della crisi greca sta proprio nella fatica della società a dare uno sbocco strutturato ed efficace alla protesta e all’indignazione, ovviamente al di là e al di fuori delle soluzioni militari e militarizzate di Alba dorata – soluzioni che, è bene sottolinearlo, nella disgregazione generale iniziano a far breccia anche all’interno della tranquilla società degli intellettuali, se è vero che sull’isola di Chio (a poche bracciate dalle coste dell’Asia Minore) può capitare di ascoltare docenti universitari che in occasioni pubbliche declamano lunghe poesie “attualizzanti” sui massacri del 1822 e sulla congenita ferinità dei Turchi, con accenti non dissimili da quelli uditi in febbraio ad Atene nella fosca commemorazione della scaramuccia di Imia.
L’unica forza che, tant bien que mal e nel disinteresse delle sinistre ufficiali europee, sta faticosamente provando a costruire un’alternativa, è la sinistra radicale di Syriza, la quale alla metà di luglio si è riunita nel suo primo congresso, esplicitamente investito di una missione fondativa. Il giovane leader Alexis Tsipras, infatti, ha deciso di sciogliere le diverse componenti che avevano dato vita al movimento Syriza in vista delle elezioni del 2012, e di trasformare questa federazione di forze in un partito vero e proprio, plurale ma privo di organismi autocefali al suo interno: l’idea di Tsipras, dichiarata nel suo trascinante e fin troppo retorico discorso inaugurale, è la creazione di un nuovo partito democratico di massa che si proponga come assoluta discontinuità rispetto ai due partiti di massa del recente passato (entrambi corresponsabili della rovina, ed entrambi oggi al governo), e che combatta per cambiamenti radicali nel sistema politico, per la “democratizzazione dei media”, contro le privatizzazioni e contro la povertà; nella speranza che prima o poi anche il Partito Comunista KKE – finora chiuso nella sua ortodossia – riconosca l’identità di obiettivo e unisca le sue pur deboli forze con quelle ragguardevoli di Syriza.
Questo passo politico non è stato affatto indolore: il grande vecchio della Resistenza e della sinistra greca, Manolis Glezos, già bandiera di tante manifestazioni di Syriza, ha esplicitamente dichiarato il proprio dissenso e denunciato il rischio di una deriva dirigista del movimento; un’intera ala, la cosiddetta “Piattaforma di sinistra” con a capo Panagiotis Lafazanis, si dissocia preventivamente da ogni tentazione di creare un partito di centro-sinistra, invocando la fedeltà al proprio ruolo di “alternativa” e schifando ogni velleità di conquistare l’elettorato della sinistra moderata: i recenti destini dei partiti di sinistra di Italia, Francia e Spagna vengono portati (ma in verità non solo dai massimalisti) ad esempio e paradigma di tutto ciò “che non vogliamo”.
Insomma, dal congresso di Syriza è uscito anzitutto un partito che si propone come una seria alternativa per il governo della Grecia (nei sondaggi continua a risultare il secondo partito a pochi decimali di punto da Nea Dimokratìa), ma un partito che sa quante forze (e quanto potenti) ostacolano il suo progetto dentro e fuori il Paese, un partito all’apparenza coeso dietro alcune battaglie di principio contro il memorandum e il neoliberismo, eppure incrinato per quanto riguarda le risposte concrete da dare alla crisi: la Piattaforma di sinistra preme per l’uscita dall’euro, la nazionalizzazione delle banche e la cancellazione immediata del debito greco, mentre la strategia di Tsipras è ormai quella di lottare bensì aspramente contro l’Europa della BCE, ma di evitare fughe in avanti che isolino il Paese nel suo destino, cercando invece un’intesa comune, su un terreno di alternativa radicale, con gli altri Paesi del Sud dell’Europa.
A prescindere da ogni valutazione sugli enjeux strettamente economici (che penso dovrebbero inquietarci da vicino), la partita che si gioca ad Atene ha il pregio della chiarezza, quella chiarezza che negli affari italiani spesso s’intorbida di distinguo, illusioni e camarille: dinanzi a una situazione drammatica, in cui il Parlamento (parola del giornalista Dimitris Kùrtovik, che non è un bolscevico) è stato di fatto commissariato da 3 anni a questa parte dai voti di fiducia e dalle pistole puntate della trojka, rimanendo squallida arena per gli insulti o gli assalti dei deputati neonazisti ai colleghi di altri schieramenti, si tratta oggi – né più né meno – di dare con urgenza un senso, un qualsivoglia senso, al concetto di democrazia.
Che questo avvenga nella città dove il concetto stesso è nato, può sembrare motivo di conforto. Ma chi conosce un po’ la storia soffre nel vedere stiracchiati Pericle e Demostene a beneficio di piccole beghe di partito o peggio di vacue esibizioni di retorica, e chi conosce un po’ la lingua percepisce lo svilimento del lessico politico con un dolore multiplo rispetto a quello, pur violento, indotto dall’analogo fenomeno italiano: così, ravvisare la parola “ritmo” dentro l’abusatissima “riforma” (“metarrìthmisi”), la parola “agone” dentro il mantra della “competitività” (“antagonistikòtita”), la parola “privato cittadino” dentro l’ormai salvifica “privatizzazione” (“idiotikopìisi”), fa pensare che la violenza sulle parole celi spesso la violenza sulle persone.