Cosa succede in Turchia, dall’inizio
Perché una manifestazione di poche decine di persone si è trasformata in pochissimi giorni in una grande protesta in tutto il paese
Da diversi giorni in Turchia migliaia di persone manifestano contro il governo del primo ministro conservatore Recep Tayyip Erdogan. In pochissimo tempo le proteste si sono trasformate da manifestazioni di poche decine di persone contro la demolizione di uno dei parchi più grandi di Istanbul – il parco Gezi, vicino alla popolare piazza Taksim – a violenti scontri in diverse città della Turchia, che hanno raggiunto la loro maggiore intensità durante la notte tra domenica 2 e lunedì 3 giugno.
Secondo la stampa turca le persone arrestate dalla polizia sono oltre 1700 – la maggior parte delle quali già rilasciate – e solo nelle tre città più grandi della Turchia ci sarebbero oltre 2000 feriti: 1480 feriti a Istanbul, di cui due in gravi condizioni, 414 ad Ankara e 420 a Izmir. Lunedì 3 giugno l’associazione dei medici turchi ha confermato anche la morte di un ragazzo ventenne, investito da un taxi durante le manifestazioni a Istanbul. Nonostante negli ultimi giorni molte testate internazionali abbiano scritto dei motivi delle proteste, è ancora molto difficile capirne le cause, soprattutto per la complessità della storia e della società turca. Quello che si sa per certo è che i manifestanti stanno chiedendo le dimissioni del governo di Erdogan, lamentandosi soprattutto per il sempre maggiore autoritarismo del primo ministro in carica dal 2002.
Le prime proteste, contro la demolizione del parco a Istanbul
Le prime manifestazioni, da cui si è sviluppato poi tutto il movimento di protesta di questi giorni, erano state organizzate il 26 maggio al parco Gezi di Istanbul, a lato della centrale piazza Taksim e di via Istiklal, una delle più commerciali e alla moda della città. Alcuni giovani si erano accampati nel parco per chiedere all’amministrazione cittadina e al governo di Ankara di rivedere il piano di demolizione del parco stesso, che era stato messo a punto per permettere la costruzione di un nuovo centro commerciale.
Già venerdì 31 maggio c’erano stati i primi scontri: diversi poliziotti in tenuta antisommossa avevano dato fuoco alle tende dei manifestanti e avevano usato spray urticanti per tentare di sgombrare il parco, spingendo Amnesty International a condannare il comportamento delle forze dell’ordine per “l’uso eccessivo della forza”. I manifestanti si erano ribattezzati “Occupy Gezi Park”, e su Twitter, a parte diversi hashtag in turco, segnalavano sviluppi e aggiornamenti attraverso lo hasthag #OccupyGezi, da cui è ancora possibile seguire molto di quello che succede in Turchia in questi giorni.
Nel pomeriggio del 1 giugno, dopo un’altra giornata di scontri, la polizia si è ritirata dal parco di Gezi e dall’area di Taksim, permettendo ai manifestanti di entrare nella piazza centrale del quartiere. Domenica 2 giugno è stata organizzata una grande manifestazione pacifica in piazza Taksim, in cui si sono radunate decine di migliaia di persone con centinaia di bandiere dell’opposizione e del sindacato.
Si protesta in tutta la Turchia
Nel frattempo le manifestazioni si erano già diffuse in altre città della Turchia, tra cui Ankara, Antalya, Bodrum e Konya. Alla protesta contro la demolizione del parco Gezi si sono aggiunte quelle su altre due questioni che avevano spinto molti giovani a protestare già nei giorni precedenti: la prima riguarda una legge, approvata dal parlamento turco il 24 maggio, che vieta di vendere alcolici vicino a moschee e scuole; la seconda riguarda il tentativo da parte del governo di limitare per legge comportamenti considerati “moralmente inaccettabili”, come il divieto di mostrare le gambe femminili nelle pubblicità o di baciarsi nell’area della metropolitana di Ankara. Durante quelle prime proteste, il quotidiano laico Milliyet aveva detto che il governo stava tentando di introdurre una sharia moderata.
Nella notte tra il 2 e il 3 giugno ci sono stati gli scontri più violenti dal 30 maggio. A Istanbul polizia e manifestanti si sono scontrati soprattutto nel quartiere Besiktas, ma molte altre violenze si sono verificate in altre 67 città del paese: tra le altre cose, alcune sedi del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), di cui è presidente Erdogan, sono state incendiate. Solo ad Ankara, riporta oggi il quotidiano turco Harriyet, sarebbero state fermate circa 1500 persone.
Perché si protesta?
In questi ultimi giorni la stampa internazionale ha fornito diverse versioni sul “perché” della protesta: qualcuno ha parlato di “primavera turca“, riprendendo come modello quello delle rivoluzioni – più o meno riuscite – dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, qualcun altro ha definito le manifestazioni come un fenomeno esclusivamente nazionale, legato al processo di modernizzazione e in alcuni casi islamizzazione recente della società turca.
Al di là delle diverse interpretazioni, ci sono alcune considerazioni comuni che sono state riportate da molti giornali del paese e da diversi esperti di Turchia. Anzitutto la motivazione non sembra essere economica, a differenza di quanto era successo nelle “primavere arabe” degli ultimi tre anni: da quando il partito conservatore di Erdogan è al potere, dal novembre 2002, la Turchia ha raggiunto alti tassi di crescita economica (solo nel 2013 il PIL turco è cresciuto del 3,2 per cento, secondo le stime dell’Unione Europea). Il modello adottato dal governo di Erdogan, che ha unito politiche economiche di liberalizzazioni e privatizzazioni con diversi tentativi di recuperare l’identità islamica in politica, sembra avere creato nell’ultimo decennio molti squilibri nella società turca: le differenze più importanti si sono create tra la popolazione che risiede nelle grandi città, che contrasta il conservatorismo islamico portato avanti dal governo, e la popolazione rurale, legata alle tradizioni religiose.
Le proteste di questi giorni sono state portate avanti soprattutto da un pezzo di società turca che risiede nelle città e che è sempre più insofferente nei confronti del partito di Erdogan (AKP): si tratta probabilmente sia della sinistra rappresentata dal maggiore partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo, sia della destra nazionalista e statalista, entrambi contrari alle politiche conservatrici e “di stampo islamico” del governo di Erdogan.
E perché proprio adesso?
Una delle ragioni più convincenti di cui si è scritto in questi giorni sembra quella legata a un processo che va avanti da almeno un decennio: nel corso degli anni 2000, per la prima volta, un partito turco è riuscito a contrapporsi al potere militare, quello che in passato con diversi colpi di stato ha ristabilito la laicità e l’ordine nel paese. Il partito di Erdogan, grazie alla grande crescita economica, è riuscito a guadagnare un grande consenso nel paese – alle ultime elezioni l’AKP aveva ottenuto il 50 per cento dei voti, e il risultato fu considerato allora persino deludente. Questo consenso sembra avere permesso a Erdogan di sganciarsi dall’influenza dell’esercito – che in Turchia per ragioni storiche è visto come il garante della laicità dello Stato – dandogli la possibilità di fare delle riforme in senso conservatore-islamico a cui l’esercito si era sempre opposto.
Come scrive Giovanni Fontana sul suo blog:
«Nel guadagnare sempre più potere – anziché dismetterle – [Erdogan] ha cominciato a utilizzare le stesse istituzioni di repressione del dissenso che aveva criticato, non soltanto smantellando il potere dell’esercito e facendo arrestare quella stessa leadership che lo aveva incarcerato 15 anni prima, ma attaccando anche la libertà d’espressione di quella parte di Turchia che non lo sostiene, con arresti e processi per giornalisti e dissidenti».
Questo processo spiegherebbe, oltre alle proteste della scorsa settimana contro le leggi sull’alcool e sui baci, come mai una protesta nata contro la demolizione di un parco a Istanbul si sia diffusa così rapidamente e in tutto il paese in pochissimi giorni.