Dimenticate Venezia
Un repertorio dei disastri che incombono sulla città, nei giorni degli aperitivi e dei vernissage della Biennale
di Filippomaria Pontani
Ci siamo. In questi giorni di acquazzoni e arcobaleni, Venezia santifica una grigia primavera con la consueta mondanità della Biennale d’arti visive, fatta di vernissages a ciclo continuo, di taxi che ronzano come mosche attorno alle uscite dei parties, di yacht allineati sulle rive e subitaneamente echeggianti di colori notturni, di braccia piegate a reggere flûtes sinuosi o a inserirli delicatamente nelle apposite asole di sofisticati piatti in porcellana. Da martedì a domenica, questa è la settimana in cui Venezia s’illude di essere il centro del mondo dell’arte, immemore del fatto che la carovana mistilingue provvisoriamente sbarcata-in-Laguna (e a caro prezzo) scalpita già per la più succulenta fiera di Basilea, ArtBasel, destinata ad aprire il 13 giugno. Tutto un mondo, oggi imbellettato o vestito con eccentrici tailleurs o cravatte, è concentrato su creazioni artistiche talora fini a se stesse, talaltra endogene, endogame, respingenti: la stessa potenza evocativa di tante opere (non tutte, beninteso) tiene più del provocatorio che del significante, e comunque ben poche dialogheranno con il luogo in cui sono esposte – in un ragionar sottile che in queste serate di accrediti e d’inviti a tratti pare fatto apposta per escludere gli iniziati, per asseverare la scissione rispetto al “mondo di fuori”. Una volta di più, Venezia si offre come scenografia di lusso per un copione non suo.
«E, in certo modo, questo splendido domicilio comune così familiare, così domestico e sonoro, assomiglia anche a un teatro in cui gli attori stacchettino sui ponti e, in disordinate processioni, passeggino svelti lungo le fondamenta».
(H. James, Il carteggio Aspern (1888), IX)
È in questi momenti che torna in mente, passato lo stordimento dello champagne e delle paillettes, la frase centrale di un caustico pamphlet di Régis Debray, che tanta ostilità si è guadagnato presso i maggiorenti locali: «Forse questo microcosmo egocentrico che ha sempre avuto qualche secolo di anticipo, che ha inventato il ghetto ben prima dei campi di concentramento e la lettera di cambio prima del cash-flow, sta inventando sotto i nostri occhi sonnolenti l’Europa insulare di domani, ridotta al suo elemento pittoresco» (Contro Venezia, Baldini e Castoldi 1997). Perché mentre risuonano i “wow!” degli intellettuali americani entusiasti delle opere ma ancor più della magia del luogo, il luogo stesso si dibatte nelle convulsioni immobili di un assedio, tanto più visibile ora che in terraferma il cash si è fermato, e rimane da vendere quasi solo un nome, un marchio, una garanzia: Venezia.
Nel recente libro di Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo (Minimum fax, 2013), diverse pagine sono dedicate al processo di cessione o concessione ai privati di intere zone della città, e tra le più simboliche, da Punta della Dogana a Palazzo Grassi, da Ca’ Corner della Regina al Fòntego dei Tedeschi: la monetizzazione del marchio ha attirato (a tacer d’altri) Pinault, Prada, Benetton, in una rincorsa, da parte delle istituzioni, alla svendita di monumenti pubblici in nome dello slogan “facciamo fruttare la cultura” – e poco importa se poi Palazzo Grassi viene rivestito di un costosissimo e vuoto tappeto simil-transilvano (opera dell’artista Rudolf Stingel, scuderia Pinault), là dove s’era pattuito che ospitasse mostre ambiziose e di valore come l’unica realizzata prima dell’invasione del pop (“Roma e i barbari”, nel lontano 2008); e poco importa se del Fòntego, antica sede delle poste, verrà sventrato l’interno per albergarvi un grande magazzino – sembra che almeno l’attico, già in predicato per una super-altana, venga invece risparmiato; e poco importa se l’Hôtel Santa Chiara di Piazzale Roma s’ingrandisce con una nuova ala che occlude la vista del Canal Grande, tanto a fianco ci siamo abituati al nuovo ponte di Calatrava, finanziato dallo stesso Benetton (lo racconta Paola Somma, Benettown, Corte del Fontego 2012), da cui – se non scivoliamo – possiamo fare tutte le foto che vogliamo; e poco importa ancora se l’Hôtel Cipriani, in un impeto di genuina hybris felliniana, propone ai suoi danarosi clienti delle cene volanti attorno a un tavolo sospeso a una gru telescopica molti metri sopra il canale tra la Giudecca e San Giorgio (promettente il titolo, dinner in the sky, e immancabile la “vista mozzafiato”); poco importa, perfino, se in Piazza San Marco le Procuratie del Museo Correr sono oscurate da un enorme e chiassoso cartello pubblicitario che copre lavori fermi da mesi (la denunzia, che scoperchia loschi traffici di misteriose aziende con sede a Malta, non è venuta dal Comune, ma da un giornalista), visto che fino a pochi mesi fa erano parimenti incartati Palazzo Ducale e perfino il Ponte dei Sospiri, dove i turisti giapponesi immortalavano i loro baci sullo sfondo di un manifesto Fiat; ma di cartelloni rimane tutt’ora incerottata, sul waterfront del Canal Grande, la veneranda Biblioteca Marciana, peraltro costretta a ospitare nel Salone Sansoviniano esclusivissimi cocktail-parties serali di Louis Vuitton, nella speranza di poter prima o poi ripristinare per gli utenti del mattino il servizio ordinario di fotocopie, fermo ormai da mesi. Del resto, che autorevolezza, che ruolo di contrappeso può vantare una mano pubblica che, appena sbaraccato il cantiere ai piedi del Campanile, lo rimpiazza con un gabbiotto metallico destinato a orientare i turisti nell’acquisto di biglietti e gadgets, ma così respingente da scuotere perfino il senso estetico di Renato Brunetta?
Ma non dimenticare la tua ombra
arriva fin giù dentro l’acqua
dove in una sporcizia impenetrabile
la corrente la porta via(Günter Kunert, Venezia I, 1978)
La tabe di Venezia è duplice: da un lato l’assuefazione a un rosario di malattie che si trascinano per anni senza soluzione, e il cui unico filo comune – per riprendere un concetto caro a Montanari – è il disinteresse per la conservazione del patrimonio artistico e culturale nel suo valore civile e comunitario: con il suo garbo deciso, lo sottolineava Enrico Tantucci in uno splendido quanto dimenticato articolo di due anni fa sullo stato dell’arte in città, dal significativo titolo “Venezia merita di essere Venezia?”. D’altro canto, sulla base di quell’assuefazione, di quel prendere per stanchezza gli abitanti sempre meno numerosi, sempre più vecchi e – almeno alcuni – sempre più cedevoli alle lusinghe del profitto, c’è il continuo rilancio di progetti sempre più dannosi, sempre più deliranti, avallati da amministrazioni troppo prone al richiamo dei soldi e ignare talvolta perfino del ridicolo o del grottesco. Come altro definire la vicenda della smisurata torre Cardin, alias Palais Lumière, progettata dal danaroso stilista francese per celebrare le proprie origini, per gratificare il progettista (il suo nipote fresco di laurea) e (nientepopodimeno) per salvare Marghera con un’iniezione di denaro fresco e una riqualificazione urbana – progetto poi miseramente naufragato non già sull’opposizione del Comune (che per inciso ospita negli anni dispari una Biennale di architettura), bensì sulla riluttanza delle banche a concedere al medesimo Pierre Cardin il prestito desiderato, con grande scorno del sindaco Orsoni, già tutto pronto a festeggiare il sorgere di cotale monumento, in barba financo alla necessità di una VIA preliminare.
Quando si arriva a simili eccessi, non è mai per caso; e s’intende così il legame inestricabile tra quelli che sembrano meri, ancorché deplorevoli, scempi estetici e quelli che sono in realtà progetti di devastazione dell’ambiente e del paesaggio. Un sobrio articolo di Franco Rigosi (in S. Barizza, Marghera 2009 – dopo l’industrializzazione, Circolo Auser 2009, 72-77, dunque ahimè già invecchiato) riporta una lista di 3 pagine fitte fitte di progetti variamente dannosi per Venezia, la laguna e la terraferma, tutti presentati, discussi e talora varati mentre tanti intellettuali cittadini si riempivano la bocca di “sviluppo sostenibile”. A scorrere la lista, e a pensare alle new entries di questi anni, l’unico paragone possibile è l’idra di Lerna, il mostro mitologico le cui teste rinascevano quanto più venivano tagliate, o la sua variante moderna (e idraulica) in quella pubblicità della Zucchetti in cui l’omino si affannava di qua e di là a tappare coi rubinetti gli zampilli impazziti prorompenti da tutti i muri della stanza, fino ad avere alla fine egli stesso l’acqua nelle orecchie, e ad arrestarla girandosi il naso. Ich habe die Nase voll, dicono i Tedeschi.
Le lagune sono un unico lavorio della natura… La diligenza e la saggezza devono ora conservare ciò che una volta seppero inventare e compiere il genio ed il lavoro.
(J.W. Goethe, Viaggio in Italia, 9 ottobre 1786)
Le pazzie, originate dal partito degli affari che nel 1990 al comando di Gianni de Michelis aveva progettato il fantasmagorico Expo a Venezia, si sono trascinate alla spicciolata per anni, centrando obiettivi preclari nel pur necessario Passante di Mestre (i cui costi sono lievitati del 60% in corso d’opera) e nel famigerato MOSE , il pesante sistema di dighe la cui lunga costruzione, affidata senza gare d’appalto e senza ponderata valutazione delle alternative, alle ditte legate al Consorzio Venezia Nuova, ha già devastato un pezzo di laguna (fagocitando anche una porzione dell’Arsenale). Poi c’è una gragnuola di novità, a macchia d’olio. Insieme alla sullodata torre di Cardin, non sembrano ancora cadute dal cuore del sindaco Orsoni (e dagli interessi che la sua Giunta esprime), in ordine sparso:
– la Metropolitana sublagunare, che dovrebbe solcare i fondali della Laguna per connettere sott’acqua l’aeroporto di Tessera con l’Arsenale, con imprevedibili effetti sull’intero equilibrio idrogeologico ed ecosistemico della zona;
– la costruzione di un tracciato TAV Venezia-Trieste, che originariamente doveva addirittura passare in gronda lagunare con fermata a Mestre o Tessera (con prevedibile, irrimediabile dissesto dell’area già così delicata e precaria), e poi ha ripiegato (non ancora però, pare, nei piani del Ministero) sul potenziamento della linea “storica” già esistente – ma per fortuna, dicono ormai tutti (lo ha mostrato “Off the Report” qualche sera fa) la TAV in Veneto non si farà più, e del fantomatico corridoio Lisbona-Kiev resterà solo il traforo in Val di Susa;
– la cementificazione del Quadrante di Tessera, nella terraferma antistante la città, che riempirà di vaste e dispensabili cubature, e dunque indorerà di nuovo valore, i terreni di proprietà del presidente dell’aeroporto di Venezia Enrico Marchi (peraltro da anni proteso ad ottenere sgomitando dall’Enav l’autorizzazione per una seconda pista);
– l’ulteriore messa a reddito dei territori del Lido, dove con il pretesto del nuovo Palacinema e del turismo di alto bordo si è compiuto uno scempio ambientale e paesaggistico senza eguali, le cui ricadute economiche – ne dipendeva la stessa sussistenza o viceversa il fallimento del Comune di Venezia – erano tali da suggerire a priori veementi sospetti circa la trasparenza del tutto: tali sospetti hanno trovato un puntuale riscontro con l’arresto di Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani SPA, quotista dell’impresa EstCapital nell’operazione Lido, operazione che Orsoni – pronto fino all’ultimo a sacrificare a fini turistici l’Ospedale a Mare – ha dovuto quindi provvisoriamente rinviare.
Il traballante Orsoni ha in larga parte ereditato questi progetti, e le connesse necessità di bilancio, dalla giunta precedente, quella del filosofo Massimo Cacciari, sul cui operato negli ultimi anni si può finalmente consultare con profitto un pamphlet appena uscito di Raffaele Liucci, Il politico della domenica (Nuovi Equilibri 2013). Ma a tirare troppo, la corda si spezza: e così anche Orsoni in questi giorni, mentre la Biennale apre e tutti brindano a champagne, ha il suo daffare per congedare in malo modo l’assessore all’Urbanistica Ezio Micelli, già impavido difensore del Piano di Assetto del Territorio che simili scempi prefigurava, e ora evidentemente stufo di assecondare fino in fondo politiche che portano al disastro (nel rimpasto di Giunta, si noti, è previsto anche l’accorpamento degli assessorati al Turismo e alla Cultura, il che lascia presagire fecondi scenari circa l’ulteriore “messa a reddito” del patrimonio di Venezia).
Una regina che si deve far guardare per denaro da voyeurs che hanno certo denaro, ma nessun rispetto per le antiche maestà
(O.J. Bierbaum, Eine empfindsame Reise im Automobil, 1902)
Ma l’idra di Lerna non si arresta mai: le pensate più grosse degli ultimi mesi sono due, e in qualche modo connesse tra loro: la creazione di un porto paragonabile a quello di Rotterdam poco lontano dalla bocca della Laguna a Malamocco, e la riconversione di Porto Marghera a mega-discarica di rifiuti tossici.
Il porto d’altura, opera ambiziosa da compiere in oltre due anni e per una cifra-base di 2,5 miliardi di euro, consisterebbe in una diga foranea di 4 km con 6 isole artificiali per una superficie a banchina di 2mila metri quadri a 12 miglia dalla costa, il tutto pensato per l’attracco simultaneo di diverse petroliere e di navi portacontainer, per una capacità fino a 1 milione (secondo l’autorità portuale perfino 3 milioni) di containers all’anno, nella speranza – secondo molti malposta – che prenda la via dell’Adriatico una parte importante del traffico merci proveniente dall’Estremo Oriente. Dalla piattaforma le merci dovrebbero poi finire a Porto Marghera (all’altezza dell’ex Montefibre, o Syndial) su avveniristiche chiatte, cui darebbero il cambio folte pattuglie di camion; il greggio, invece, verrebbe instradato a Marghera tramite un oleodotto di nuova costruzione.
Questo porto, sia chiaro subito, funzionerebbe per le merci, e non servirebbe a deflettere il traffico delle grandi navi che appestano la Stazione Marittima di San Basilio per giorni interi e poi solcano pericolosamente il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco con inesorabile regolarità. In tal senso, a nulla è valsa la tragedia del Giglio con le tante polemiche e gli appelli conseguenti, a nulla il recentissimo disastro “urbano” di Genova, i cui esiti potenziali su Venezia sono stati ben immaginati da Gian Antonio Stella; a nulla gli studi accademici che hanno illustrato quanto poco profitto reale la città tragga – tutto considerato – dal passaggio dei mastodonti del mare attraverso il proprio cuore abitato e pulsante. Delle Grandi navi ho scritto un anno fa: che la situazione non abbia fatto un passo avanti, nonostante il decreto di Clini (peraltro geneticamente modificato) del 2 giugno 2012, nonostante le prescrizioni dello stesso PAT, e nonostante l’incolore accordo per una piccolissima riduzione delle emissioni nocive, è mostrato dall’incombere di una nuova manifestazione del movimento cittadino, convocata per il 7-8-9 giugno tra Sacca Fisola e il Bacino di San Marco. Del resto, le navi sono sempre di più (663 nel 2012, con punte di 11 passaggi al giorno), i rischi per la città aumentano, e cresce soprattutto l’inquinamento silente dell’aria e dell’acqua (silente, cioè, tranne che per gli assordati abitanti delle zone limitrofe alle banchine di stazionamento). Chi veda lo sgraziato imporsi dei maleolenti bestioni ben al di sopra dei tetti di Venezia può legittimamente chiedersi perché nella lingua inglese la nave – unico tra i nomi comuni di cosa – abbia il delicato privilegio di essere considerata un essere animato di genere femminile.
Stella e nerastra scia
scomparvero al canale.
Il tuo sorriso infermo, bimba,
mi seguì piano nel sonno.(G. Trakl, A Venezia, 1914)
Il porto d’altura non servirà dunque per le grandi navi, ma per le merci: non è chi non veda come con questa nuova infrastruttura megagalattica la pesca e l’allevamento verrebbero definitivamente compromesse, il traffico di imbarcazioni dentro la Laguna verrebbe triplicato, per non parlare dell’ardua sostenibilità del massiccio trasporto su gomma che s’instaurerebbe immediatamente dinanzi a Venezia, nel vasto terrain vague di Porto Marghera: le prime valutazioni condotte dai tecnici del Comune, e propiziate dai dubbi di Gianfranco Bettin, esortano a grande cautela dinanzi a un impatto ambientale potenzialmente devastante per tutto l’ecosistema, già duramente provato; per non parlare dei rischi connessi a un oleodotto che corre giusto sotto la Laguna. L’artefice e il principale sostenitore di questo disegno è un uomo già “di sinistra”, ovvero l’ex sindaco (ed ex ministro del governo Prodi) Paolo Costa, convinto assertore della “portualità” di Venezia anche dinanzi alle recenti debolezze (il calo del traffico dei containers, anzitutto), il quale è volato in Cina a prendere accordi per sollecitare e agevolare i nuovi percorsi delle merci orientali, e per mettere tutti dinanzi al fatto compiuto delle “grandi ricadute economiche” sulla città. La realtà, al di là delle minute valutazioni tecniche che abbiamo testè citato, è che nessuna persona sana di mente costruirebbe un porto pari a quello di Rotterdam in un contesto così fragile come quello lagunare, ma soprattutto nessuno correrebbe il rischio di contaminare per sempre con enormi piattaforme, squadre di chiatte trasportatrici e un parco logistico per container un ambiente che tutto il mondo – piaccia o no – ama anzitutto per la sua unicità estetica. Del resto, quanto è avvenuto al Lido e con il MOSE mostra che non sempre il criterio più ovvio alberga nelle menti di chi decide.
con i tuoi muri vaiolosi
che ammalan l’acqua di colorazioni elettriche;
con la tua luna esaltante
che la laguna ingoia
come una pastiglia di chinino
per guarire la sua febbre lancinante(C. Govoni, A Venezia elettrica, 1915)
L’altra testa dell’idra di Lerna, l’altro rubinetto impazzito contro cui alcuni comitati si stanno già mobilitando riguarda il cosiddetto revamping dell’impianto di ricondizionamento di rifiuti speciali “Alles” di Porto Marghera. La Giunta regionale, presieduta da Luca Zaia, ha infatti recentemente deliberato che Porto Marghera potrà divenire nel prossimo futuro un centro di stoccaggio e smaltimento di rifiuti d’ogni genere, inclusi quelli speciali, pericolosi e tossico-nocivi. La ditta Alles, che peraltro appartiene alla galassia della medesima Mantovani il cui presidente è attualmente al fresco (ma la Mantovani, in cooperazione con la Thetis, è anche tra le imprese assegnatarie delle opere per il succitato porto d’altura), ha avuto la licenza di incenerire 180mila tonnellate di rifiuti all’anno, nonostante il Comune, impegnato nello smantellamento dell’inceneritore di Fusina, avesse espresso la propria ferma contrarietà. La battaglia – l’ennesima – è in corso, anche se per ora la delibera regionale parla chiaro; a nulla sono valse le esortazioni di Beppe Caccia e di altri consiglieri affinché venisse rimeditata la VIA concessa all’azienda; a nulla le denunce dell’Osservatorio ambiente legalità sul progredire inesorabile dell’ecomafia in Veneto, un progredire incentrato proprio sul porto e sull’immediata terraferma, e connesso più latamente – così argomenta l’Osservatorio – a una dinamica imprenditoriale incancrenita in tutta la regione, fatta di parassitismo e contiguità con i decisori politici e burocratici, di abuso del project financing e delle procedure “grandi opere” (da ultimo, ci si è provato con la fallimentare candidatura di Venezia per le Olimpiadi 2020, promossa da Zaia e sostenuta anche dall’attuale ministro Zanonato), a fronte dell’assenza di un vero piano regionale dei trasporti o di un qualsivoglia piano organico di sviluppo. Chi voglia conoscere i nomi e i cognomi, provincia per provincia, può iniziare da Legaland. Miti e realtà del Nordest (manifestolibri 2010), in cui Sebastiano Caretta ed Ernesto Milanesi hanno allineato tante sfaccettature del potere veneto degli ultimi anni (dal 2010, per inciso, la crisi ha colpito sempre più duramente).
Ma la vicenda dei rifiuti speciali a Marghera non può essere chiusa in un paragrafo, in quanto tocca a mio parere il vero fulcro rimosso, la vera, urticante attualità di Venezia, quell’attualità che sfugge alle Biennali e agli allegri convitati dei vernissages, e che parla l’eterno linguaggio della morte. A tutti è nota la storia industriale di Porto Marghera, creato come polo dell’industria navale e chimica negli anni ’10, e cresciuto nel Dopoguerra in direzione petrolchimica fino a coprire tramite imbonimenti progressivi (donde il Witz “mar gh’era”, “qui c’era il mare”) tutta una larga area di barene (la II Zona Industriale), e a scavare profondissimi canali, come quello dei Petroli, destinati a sconquassare per sempre l’equilibrio idraulico della Laguna, contribuendo per esempio all’intensificarsi delle acque alte in città. Ebbene, nel cuore degli anni del boom economico, il Piano Regolatore Generale di Venezia del 1962 prevedeva testualmente che a Porto Marghera “troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polveri o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’aria sostanza velenose”.
L’affermazione, contenuta tale e quale in un documento ufficiale, strabilia tanto più in quanto all’epoca Marghera non era affatto un cantiere disabitato: varcato il muro degli stabilimenti, appena oltre via Fratelli Bandiera, iniziava un quartiere pensato in origine 1922 da Pietro Emilio Emmer come una vera “città-giardino” sul modello anglosassone, e poi via via corretto (complici anche i bombardamenti della guerra e le incresciose ricostruzioni del dopo) in un insediamento popolare, non immune dalla speculazione, ma senz’altro più arioso e meno caotico rispetto al centro limitrofo di Mestre (si veda F. Mancuso, Fronte del porto, Corte del Fòntego 2012, nonché le splendide foto del compianto Gabriele Basilico testè esposte al Centro Candiani in Rethinking Mestre). Cosa pensava, il PRG, di tutti quegli abitanti, che già dal 1924 – secondo quanto segnalava un solerte sindaco dell’epoca, prontamente tacitato da tranquillizzanti contro-relazioni dell’azienda – “hanno reclamato presso questo ufficio perché ricevono nocumento e molestia dai gas esalanti dal camino dell’opificio Cita sito ai Bottenighi in territorio di Venezia” (questa citazione, come le notizie essenziali sull’urbanistica di Marghera, è tratta dall’ottimo volume collettivo Marghera. Il quartiere urbano, Alcione 2000)? E cosa ne pensa il legislatore odierno?
scheletri rimasti delle stesse fiamme / paralizzate / di cui siete l’imprevedibile / filiazione, / forte spinta a città di malora / città perduta / tanto morta da essere impegnata / a farsi fantasma di se stessa / che stridi muta / tuoi gerghi anche / nell’annientamento protervi / di chimici spettri / mal protesi nervi / colori e forme frane / hanno zanne / esprimono / o covano / espiano / disseccati / sotto / sputi / di Arpie
(A. Zanzotto, Fu Marghera, 2009)
Porto Marghera è una sorta di enciclopedia dei mali dell’industrializzazione italiana, per diverse ragioni: il disordinato sviluppo che nel 1965 rischiava di estendere le attività produttive verso una III zona industriale, potenziale colpo di grazia per tutto l’equilibrio della Laguna e soprattutto per l’inquinamento della terraferma; il declino del ciclo produttivo iniziato nel 1974, e proseguito senza interruzioni fino alle chiusure sempre più frequenti negli ultimi 15 anni (Enichem, Dow, Montefibre, Solvay, Sirma, Syndial, fino alla grottesca e trista vicenda della Vinyls); la lunga catena di incidenti che hanno flagellato il Petrolchimico, a cominciare da quelli più spaventosi, come la catena di 38 morti fra ’51 e ’56, la caduta di un Argo 16 a pochi metri da un deposito di fosgene il 23 novembre del 1973, lo scoppio mortale di una bombola nel reparto dell’acido fluoridrico nel marzo 1979, l’incendio ai serbatoi del fosgene, con susseguente fuga di gas, non più tardi del 28 novembre 2002. Ma l’esemplarità di Porto Marghera sta nel riassumere in sé un dilemma ben più pressante di quello tra arte e sviluppo, tra bellezza e produttività, in cui si vuole frettolosamente rinchiudere l’intera città di Venezia. Porto Marghera compendia in sé, nelle sue arterie e nelle arterie dei suoi figli, il conflitto irrisolto tra sviluppo industriale e tutela della vita, in una parola fra lavoro e salute.
Ecco dunque l’attualità bruciante e sottaciuta di quelle dedaliche costruzioni e ciminiere che, viste da Venezia, colpiscono per il loro ardito skyline, per la loro eleganza quasi astratta; mi ricordano l’imponenza del Petrolchimico di Gela, che visitai ragazzo nel ’93 quando ancora s’ignoravano i suoi effetti sulla salute degli abitanti, o le inopinate architetture del complesso di Sarroch, in una delle spiagge potenzialmente più belle della Sardegna, dove si continua sommessamente a morire e dove perfino Massimo Moratti – nel silenzio dei media impegnati a discutere della sua Inter – viene chiamato a rispondere delle proprie omissioni. Oggi, quando sentiamo parlare di una fabbrica in crisi, bisognosa di riconversione o ammodernamento, che negli anni passati ha avvelenato l’aria, l’acqua e la terra, portando un carico di morte sui propri operai e sugli abitanti dei dintorni, nonché tradendo tragicamente le attese dei “metalmezzadri” (la folgorante definizione è di Walter Tobagi) che venivano a lavorarvi ogni giorno dalla campagna, pensiamo d’acchito all’ILVA di Taranto, e a quella realtà cittadina magistralmente ripercorsa da Alessandro Leogrande nel recentissimo Fumo sulla città (Fandango 2013). Ma Porto Marghera, mutatis mutandis, racconta una storia analoga, troppe volte colpevolmente ignorata da chi si accosta al fenomeno Venezia, e infatti ancora drammaticamente irrisolta. Qui e lì, la spia fondamentale sono le cozze: quelle del Mar Piccolo, che non si possono più allevare né mangiare; quelle che, tra Petrolchimico e Mose, sono ormai scomparse dalla Laguna. La “modernità” di Porto Marghera, perfino rispetto a Taranto, sta nel fatto che sin dal principio, e poi a maggior ragione con la nuova privatizzazione Enichem degli anni ’70 e la susseguente frammentazione, non è esistita per lungo tempo una fabbrica unitaria, ma una serie di aziende di diverse dimensioni, dalla cantieristica ai trasporti, dalla chimica alla raffinazione del greggio: così, lo stillicidio delle chiusure è stato più lento, il problema occupazionale più diluito (ma ancor oggi – come mostra il caso Vinyls – presenta i suoi conti salatissimi), e d’altra parte la ricerca delle responsabilità più faticosa, gli interventi di recupero e di riqualificazione oggettivamente impediti dall’assenza di un disegno complesivo, dall’alea esitante del dilemma tra futuro industriale e bonifica.
Perché poi quello che interessa, a Taranto come a Venezia, è la comprensione del passato e la prospettiva del futuro. Nel leggere la storia della Fabbrica dei veleni del giudice Felice Casson (Sperling & Kupfer 2007) s’incontrano le storie che abbiamo sentito dalla Puglia in questi mesi, i polmoni di un operaio esposti come in un’installazione di Penone, a denunziare con il loro fiato e la loro malattia i devastanti effetti del cloruro di vinile monomero (CVM) sull’organismo di decine di lavoratori; l’angiosarcoma del fegato, il mesotelioma pleurico, la malattia di Raynaud; le analisi non commissionate dalle ASL, le indagini scientifiche insabbiate dall’azienda; le decine di lavoratori morti, l’ambiente contaminato. E poi, nel 1972, le minacce del piduista Eugenio Cefis, già successore di Mattei all’Eni e poi patròn della Montedison, di chiudere lo stabilimento in caso di condanna per reati ambientali; e l’incredibile e coraggioso processo condotto tra alterne vicende da Casson tra il 1998 e il 2004 fino alla condanna in Appello dei responsabili di quelle morti e di quelle negligenze – una condanna fantasma, le pene prescritte, gli imputati defunti da un pezzo, per le bonifiche comminate cifre irrisorie.
Lavoravamo tra micidiali veleni
sostanze terribili
cancerogene.
Non affermate ora
furfanti
ladri di vite
che non c’era alcuna certezza
che non c’erano legislazioni.
Non dite, non dite che non sapevate.(F. Brugnaro, Tutti assolti al processo per le morti al petrolchimico, 2001)
Se c’è una cosa che distingue Venezia da Taranto, oltre al tipo di inquinamento e alla diversa presenza della criminalità, è il maturare di una coscienza di opposizione, dentro e fuori lo stabilimento, dentro e fuori i sindacati. Le mobilitazioni comuni degli anni ’68-’69 coinvolsero gli operai accanto agli studenti universitari dello IUAV, in una riflessione organica su un disegno complessivo di società che oggi, nella frammentazione dei contratti e nella precarizzazione delle coscienze, pare quasi un miraggio (si veda E. Montali (a c. di), La salute non si vende! Lotte operaie del ’68 nelle fabbriche chimiche di Marghera, Roma 2009). Un disegno radicale, discutibile forse, ma portatore di un germe di comunanza e di condivisione, e scevro – ne fa fede l’opposizione alla violenza brigatista, che ferì più volte il Petrolchimico (si pensi all’assassinio di Giuseppe Taliercio) – di cedimenti al terrorismo. Un disegno capace, per tornare a bomba, di contestare platealmente nel 1968 la Biennale dell’arte, del cinema e della musica nell’intento di denunziare lo scollamento fra mondi sempre più distanti, la società dello spettacolo (e della politica) e quella dei lavoratori. E oggi, che le disuguaglianze e i solchi sono profondi come il Canale dei Petroli, a che punto siamo? E oggi, che l’inganno di Marghera si è svelato e le barene spirano veleni, si troverebbero i Luigi Nono, gli Emilio Vedova, i Gian Maria Volontè pronti a manifestare dalla parte dei contestatori?
Oggi, al posto dei metalmezzadri che mettevano le angurie a raffreddare sui contenitori di CVM (senza avere ovviamente idea del rischio che correvano), nei pochi stabilimenti attivi di Porto Marghera si aggirano tanti Bengalesi, Romeni, Thailandesi, pagati a cottimo da terzisti concessionari del lavori più bassi. Quando muoiono, questi cosiddetti “lavoratori d’impresa”, se ne parla poco; e parlano poco anche le anime sante che li aiutano, come don Mario Cisotto quando faceva il cappellano del porto, o i tanti volontari di Marghera. Ma se anche quei lavoratori, con estrema pena, possono ancora rivendicare qualche diritto e qualche tutela (sempre meno, sempre più sulla carta), lo si deve alle lotte della FIOM di Bruno Trentin nei primi anni ’60, alle mobilitazioni del movimento del ’68-’69, all’evoluzione di un sindacato che iniziò a non barattare più il tasso di nocività con aumenti in busta paga, all’ingresso in fabbrica di una Commissione Ambiente vent’anni prima della legge nazionale del ’94, e forse perfino all’elaborazione teorica che proprio su Marghera si compiva nella sezione PCI di Campo San Barnaba ad opera di intellettuali come Toni Negri e Massimo Cacciari, prima che entrambi andassero incontro a un poco glorioso destino. E fa parte dei paradossi del nostro Paese che in una recente quanto decisiva elezione comunale per Venezia (2005) si siano scontrati proprio il Cacciari (nel frattempo folgorato sul cammino di don Verzè) e il giudice Casson, che contro tutto e contro tutti aveva provato a dar séguito alle solitarie denunce di alcuni (si ricorda in particolare l’operaio Gabriele Bortolozzo, da cui tutto cominciò) per elaborare la tragedia per via giudiziaria – la vittoria del filosofo, e le prove della sua ultima Giunta, hanno dato la misura della sconfitta di quella che era un tempo la sinistra.
Tradito dalle reticenze dell’Enichem, umiliato dal giro di mazzette degli anni Ottanta (tra cui la “madre di tutte le tangenti”, quella Enimont), gli anni dell’Italia da bere, dell’ascesa di Gianni De Michelis (da professore di chimica a ministro più “rock” del famigerato PSI craxiano) e dello spregiudicato velista Raul Gardini, quando l’Enichem triturava la filiera per indebolire la comunità operaia di base, Porto Marghera ha trovato diversi storici (tra i più efficaci Gilda Zazzara, autrice del sintetico ed efficacissimo libro Il Petrolchimico, Padova 2009), qualche cantore (le Orme, i Pitura Freska), qualche poeta (Ferruccio Brugnaro, a suo modo Marco Paolini), ma non ancora un futuro.
È un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più in generale l’ecologia con il lavoro
(Alexander Langer, 1983)
Progetti ve ne sono, beninteso, e alcuni di grande valore. Ma l’area è ampia (5800 ettari, di cui 2000 strettamente industriali), alcune attività sono ancora in piedi (a Fusina, si spera per poco, il trattamento rifiuti; nella I zona industriale il cantiere della Costa Fascinosa), altre zone sono già delle discariche coperte (Isola delle Tresse); la riqualificazione iniziata con il grande centro direzionale VEGA, che costeggia la linea della ferrovia, è sempre più minacciata dalla crisi (perfino l’università, in ristrettezze, deve sbaraccare dagli uffici che vi occupava), mentre il piano di un centro residenziale non potrebbe essere disgiunto da bonifiche capillari per cui non ci sono i soldi, né, pare, la volontà (si calcolano circa 15 miliardi: nel 2001 sono arrivati appena 140 miliardi di lire). Navigare nei canali di Marghera, fra i silos dismessi e i cumuli di coke, gli scheletri dei capannoni e le geometrie dei tubi aerei, è un’esperienza dell’anima che nessuna Biennale può sostituire. Mentre si avanza lentamente tra la zona cerealicola e la Piana degli Azotati, tra i moli dei container e la zona manifatturiera, mentre si ripercorrono nella mente tutti gli inutili Accordi di Programma per Porto Marghera solennemente stipulati negli ultimi 15 anni, viene in mente che forse solo un deciso impulso verde – qualunque cosa ciò significhi (oasi, polo tecnologico, industria avanzata) – potrebbe trovare nelle strutture e nei miasmi di Marghera un fertile terreno partenza; forse, addirittura, una prima opportunità per “riparare il mondo”, nel senso che intendeva il dimenticato profeta Alexander Langer.
Di certo, finché, nella ricerca di una prospettiva di sviluppo per Venezia, non si sanerà l’immane minaccia ecologica che grava sulle barene imbonite e inquinate fin nelle viscere (siamo dinanzi a uno dei primi 10 siti “di interesse nazionale” per quanto riguarda l’inquinamento ambientale), finché cioè non partiranno bonifiche più sistematiche – e più onerose – di quelle fin qui intraprese, il fantasma di Porto Marghera non cesserà di assediare i sonni dei governanti e la salute dei cittadini, e la porta sarà sempre aperta per le Torri, per i container, per le Grandi Navi, per gli inceneritori; e Venezia, quella storica, ci andrà sempre di mezzo. Soprattutto, finché la città, tra un vernissage e l’altro, non renderà piena giustizia, nella memoria collettiva come nel giudizio sul proprio passato industriale, da un lato ai morti del Petrolchimico e alle loro famiglie, dall’altro ai valori sballati delle centraline di rilevazione del PM10, all’avvelenamento di barene e canali, alle follie progettate da chi insegue il denaro, finché – in una parola – non si capirà quanto Venezia abbia in comune con Taranto, pur nelle differenze dell’evoluzione storica, fino a quel giorno credo che ogni progetto di riconversione industriale, di riqualificazione tecnologica o culturale, di riconfigurazione complessiva della città, nelle isole e in terraferma, sarà destinato alla sconfitta. Insieme al Paese tutto, di cui è questo il fiore.
(Foto Marco Secchi/Getty Images)