La storia della “pista saudita” di Boston
Da dove veniva la notizia falsa circolata per ore sui siti di mezzo mondo, Italia compresa: c'entra un ragazzo "nel posto sbagliato nel momento sbagliato"
Lunedì 15 aprile, poco dopo le esplosioni delle due bombe nei pressi del traguardo della maratona di Boston, alcune testate e giornali americani – e in seguito altri italiani e internazionali – hanno scritto dell’esistenza di una “pista saudita”. Secondo queste notizie, la polizia di Boston aveva fermato un cittadino saudita che si trovava sul luogo dell’attentato al momento dell’esplosione, senza però diffonderne le generalità o altri particolari. La notizia era stata data per prima dal sito del New York Post, citando fonti delle forze dell’ordine, e nella concitazione del momento era circolata molto. La polizia la smentì poche ore dopo, oggi sappiamo che non era vero.
La giornalista Emy Davidson ha provato oggi a ricostruire sul New Yorker quello che è successo, per capire perché molti siti di news abbiano deciso di riportare una notizia non confermata e in fin dei conti falsa, lasciando campo libero a insinuazioni e speculazioni. C’è almeno un precedente, peraltro, e recente: per molte ore dopo gli attentati di Oslo e Utøya del luglio 2011 si parlò senza prove di una “pista islamica”, che arrivò sui giornali di mezzo mondo prima di rivelarsi falsa.
La vicenda della “pista saudita”, racconta il New Yorker, inizia poco dopo l’esplosione delle due bombe. Quando il fumo è ancora fitto un ragazzo – 20 anni, spettatore della maratona – scappa via, spaventato, come molte altre persone che si trovano nei pressi del traguardo della maratona: è ferito, viene fermato e aiutato da un altro spettatore (un giornalista ha raccontato di aver visto lo spettatore “placcare” il ragazzo ferito). Niente di strano: atleti e spettatori «si sono aiutati l’uno con l’altro, si sono consolati l’uno con l’altro», ha detto poi il procuratore dello stato del Massachusetts, Carmen Ortiz.
L’uomo che presta soccorso, però, pensa di riconoscere qualcosa di strano nei movimenti e nel corpo del ferito: corre innanzitutto, poi puzza di esplosivo e ha tratti mediorientali. Dice qualcosa sul fatto che ci sarebbero state due bombe, non una come riportano i giornali nei momenti appena successivi all’esplosione, e chiede notizie su eventuali morti. Tutte cose, sostiene Davidson sul New Yorker, dovute e spiegate dall’esplosione, che qualsiasi ferito avrebbe potuto dire o fare in quella situazione: era normale scappare, era normale puzzare di polvere da sparo, era normale chiedere informazioni su quanto accaduto.
Lo spettatore attira l’attenzione della polizia, che porta il ragazzo in ospedale e lo tiene sotto controllo. La notizia dell’esistenza di un “sospettato” viene data dal New York Post – quotidiano considerato scandalistico e non proprio “autorevole” – in un articolo pubblicato online il 15 aprile alle 16.28 ora di Boston e aggiornato fino alle 21.14 dello stesso giorno. Nell’articolo si legge: «Il Post è venuto a conoscenza che gli investigatori hanno un sospettato – un cittadino saudita – per le terribili bombe della maratona di Boston». Il New York Post sostiene che la sua fonte è interna alle forze dell’ordine, e avrebbe fatto sapere al giornale che il sospettato è ferito e che è stato fermato poco meno di due ore dopo l’esplosione delle bombe.
Nello stesso articolo, citando sempre questa fonte, il New York Post riporta diverse altre cose mai confermate ufficialmente dalla polizia di Boston e poi rivelatesi false: scrive che la polizia è in possesso di un video di sorveglianza che mostra una persona portare alcuni zaini nel luogo dell’esplosione; che c’è stata una terza esplosione legata alle prime due alla John F. Kennedy Presidential Library and Museum; e che il numero delle persone uccise nell’attentato è salito a 12. La polizia ha non ha mai fornito quella cifra, falsa, che eppure arriva anche in Italia il giorno dopo sulle prime pagine del Gazzettino, del Piccolo e del Tirreno. Anche queste notizie, insieme a quella del fermo del cittadino saudita, vengono riprese da alcuni giornali e siti di news americani e internazionali.
Lo stesso lunedì sera, a Boston, una squadra di agenti dell’FBI, della polizia di Boston e dell’autorità statunitense sulle armi fa irruzione in un appartamento al quinto piano della Ocean Shores, nel quartiere Revers: è l’abitazione del saudita ferito, e come racconterà il giorno seguente al Boston Herald l’altro inquilino dell’appartamento, Mohammed Hassan Bada – ventenne, anche lui saudita – l’irruzione è un'”impressionante dimostrazione di forza” delle forze dell’ordine.
La polizia prende alcuni oggetti personali del ventenne ferito e parla con Bada per cinque ore. Nel frattempo arrivano le prime smentite dal portavoce della polizia di Boston, che riferendosi alla notizia data dal New York Post dice: «Onestamente non so dove abbiano preso l’informazione, ma non è arrivata di certo da noi». Quella stessa sera Ed Davis, capo della polizia di Boston, dice in conferenza stampa non c’è alcun sospettato e che la polizia non ha in custodia nessuno. Qualcuno comincia a parlare, elusivamente, di “person of interest” (espressione anglosassone per indicare qualcuno coinvolto in un’inchiesta relativa a un reato, senza però che questo sia stato arrestato o accusato formalmente: un po’ più di un testimone, un po’ meno di un sospettato). Alcuni giornali continuano a dare spazio a questa storia anche in Italia, almeno fino a martedì mattina.
La “pista saudita” comincia a essere ripresa insistentemente anche da Fox News Channel. La mattina dopo, martedì, Bada trova fuori di casa un giornalista di Fox News che insiste per sapere se è sicuro di non aver vissuto nello stesso appartamento di un omicida. Sempre martedì mattina Andrew Napolitano, ex giudice della Corte Suprema del New Jersey e analista politico e giudiziario per Fox News, dice al programma “Fox and Friends”: «Ci devono essere prove sufficienti per tenerlo lì [“lì” inteso come ospedale]. Devono avere informazioni di natura sospetta su di lui».
Nella giornata di martedì la “pista saudita” perde progressivamente credibilità. Non c’è nessun sospetto e nessun testimone, ribadiscono fonti ufficiali della polizia di Boston. La corrispondente della CNN al Pentagono, Barbara Starr, riporta – citando fonti tra le autorità federali – che il ragazzo saudita è uno che si trovava “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”, semplicemente uno spettatore della maratona ferito a causa delle esplosioni. La sua testimonianza rilasciata alla polizia, prosegue Starr, non ha portato a nulla di significativo. Quindi né sospettato né “person of interest”. Martedì anche Fox News dice che la “pista saudita” è stata abbandonata. Durante una conferenza stampa tenuta martedì sera, Richard Deslauriers, agente speciale dell’FBI, ha messo la parola “fine” alle speculazioni sul sospettato saudita: «La gamma dei sospetti e dei moventi rimane molto ampia».
Per quello che si sa, scrive Davidson sul New Yorker, l’attentato potrebbe essere stato fatto da un saudita come da un americano, da un islandese o da una persona di qualsiasi altro paese. Questo non significa che questo ragazzo ferito, oggetto per ore di speculazioni e ipotesi, possa essere trattato così o che i suoi cari debbano venire a sapere del suo ferimento dai giornali che, nel frattempo, lo etichettano come “sospettato” di avere messo le bombe. «È in questi momenti», aggiunge Davidson, «che dobbiamo essere cauti».
Tra i siti americani che avevano sostenuto la veridicità della “pista saudita” senza citare espressamente il New York Post come fonte, ci sono la CBS, Fox News e il Los Angeles Times. Altri, come il Washington Times e il sito Businessinsider, hanno riportato la notizia specificando però che era stata ripresa dal New York Post. Davidson ha concluso: «L’FBI ha detto che “andrà fino agli estremi confini della terra” per scovare i colpevoli degli attentati di Boston. Uno vorrebbe però che fossero in grado di andarci a testa alta».
foto: (Darren McCollester/Getty Images)