Com’è ad Atene
Questi giorni nel paese "che non ha Berlusconi", una cronaca in piano-sequenza di Filippomaria Pontani
di Filippomaria Pontani
Dopo il voto del 24-25 febbraio, l’analogia con la Grecia della scorsa estate appare lampante (ove non bastasse, viene apertamente evocata dalle cancellerie internazionali). Situazione di grave crisi economica (certo più grave della nostra, ma di quanto?), elezioni politiche dominate dallo spauracchio di un movimento radicale (che mette in discussione anzitutto le politiche recessive dell’Europa), delegittimazione progressiva (sulla base degli scandali e di una manifesta incapacità) dei partiti di centrodestra e di centrosinistra, rabbia, risultato elettorale di sostanziale ingovernabilità, paura della necessità di un ritorno al voto in tempi rapidi.
Com’è noto, in Grecia si andò effettivamente a votare una seconda volta dopo poche settimane: la pressione dell’Europa e la demonizzazione di Syriza (il movimento radicale, appunto: di sinistra, ma ben distinto dal Partito Comunista e dall’ala sinistra del Partito Socialista) portarono alla possibilità di formare un debole governo Nea Dimokratìa – Pasok – Dimar (conservatori – socialisti – sinistra democratica), che tra mille inciampi e continue minacce di crisi dura fino ad oggi, e fino ad oggi obbedisce – ché altro, in sostanza, non fa – ai dettami della trojka europea. Non sono in grado di prevedere le tappe future della crisi politica che si è aperta nel nostro Paese, sebbene senta già caldeggiata da molti anche in Italia l’ipotesi di una große Koalition. Poiché però l’esempio greco è lì dinanzi agli occhi (ci hanno preceduto su tutto; e non mette conto ricordare che loro non hanno Berlusconi, che da noi il centrosinistra è comunque il primo partito, che da noi i ristoranti – almeno quelli cinesi – sono ancora pieni, o quasi pieni), propongo all’attenzione dei lettori un reportage da Atene di inizio febbraio, vergato in fretta e furia da un viaggiatore perplesso e a tratti desolato.
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Atene, 3 febbraio 2012 – Ora che Anghelòpulos è nei Campi Elisi ci vorrebbe forse un Sokurov, un interminabile piano-sequenza per cogliere l’intima compenetrazione tra passato e presente in quel che resta di una grande capitale europea. Ricordo, nel ’91, la sensazione di sgomento nel salire in superficie dalla bouche de métro di Potsdamer Platz, all’epoca ancora un grande deserto sterrato punteggiato da timidi abbozzi di cantieri. Oggi che tutto è cambiato, e quella piazza è divenuta l’ombelico della nostra modernità, provate a salire al livello stradale dal tratto di metropolitana più archeologico d’Europa, quello che sbuca a costeggiare l’Acropoli, il Theseion e il Ceramico nella sua dolce corsa verso il Pireo: la fermata “Thissìo” corrisponde al tempio greco meglio conservato, il tempio del dio Efesto dove la tradizione seriore ha voluto riconoscere la tomba dell’eroe fondatore della città, Teseo, quello che vinse il Minotauro e piantò Arianna in N-asso. Ebbene, lo spettacolo che si offre alla vista appena fuori dalla stazione trova confronti solo in certe zone del Cairo o di Bombay: dal lato verso l’Acropoli le voci bercianti di decine e decine di venditori ambulanti d’ogni provenienza (molti parlano greco, ma non poche facce e favelle rimandano piuttosto ai Balcani) che sciorinano su lenzuoli rimediati ogni sorta di mercanzia, anzitutto vecchi stracci spacciati per vestiti (“cinquanta centesimi” urla l’anziana signora col viso segnato dagli anni), poi stivali e ciabatte usate, rasoi, solette (“per tutte le scarpe” millanta un omone corpulento da dentro la sua maleolente giacca in similpelle nera), occhiali da vista e da sole, borsette lise, oggetti vari probabilmente frutto di ricettazione, tutto a prezzi inconcepibilmente bassi: fare concorrenza ai Cinesi richiede un poco d’inventiva, e di sacrificio.
Questa vasta casbah, i cui protagonisti straccioni popolano anche il limitrofo parco che si apre giusto sopra i resti della leggendaria agorà dell’Atene antica (lì la sede della Bulè, lì il portico dipinto da Polignoto, lì le passeggiate dei filosofi e degli oratori), sembra uscita da una veduta dei viaggiatori sette-ottocenteschi che visitavano Roma o Atene con la stessa disposizione d’animo con cui noi oggi andiamo (o andavamo) a contemplare le rovine di Palmira, di Leptis Magna o di Volubilis. E mille, fin troppo facili suggestioni si schiudono a chi varchi la soglia del Ceramico, l’antico cimitero monumentale immerso in una quiete irreale, vuoto di visitatori e abbandonato a un silenzio vegliato dalle stele del V secolo, dalla memoria dell’Epitafio di Pericle, il manifesto della democrazia occidentale (430 a.C.) che Tucidide immagina pronunciato proprio qui, lungo la strada che di lì a poco avrebbe condotto all’Accademia di Platone. Ma rispetto all’Africa e al Medio Oriente c’è un’importante differenza: basta attraversare la strada, la via peraltro dedicata all’apostolo della fede cristiana San Paolo, per entrare in un mondo opposto, quello dei caffè di tendenza, dei locali costosi, in una zona elegantemente pedonalizzata in occasione delle Olimpiadi del 2004, dove ancora oggi si affacciano realtà irrelate come la fondazione degli Eraclidi (Iraklidòn), che ospita ora una raffinata mostra su Escher e Vasarély. Poco più in là, in via Dionigi Areopagita (ancora gli incongrui richiami alle origini del Cristianesimo), ecco i sontuosi palazzi dell’Ottocento (vi abitava tra l’altro il pluricorrotto ministro socialista Tsochatsòpulos, ora in galera) e l’ultima, meravigliosa follia della beata età dell’oro, il Museo dell’Acropoli di Bernard Tschumi (aperto nel 2009).
«Stanno nel museo, le statue». / «No, ti danno la caccia, non lo vedi?» (Giorgio Seferis, Il tordo, II, 54-55 [1947])
Saliamo un momento a destra sulla Pnice, sul colle del Filopappo. Tutto è ora immobile come i sorrisi delle korai; tutti in questo Paese – mi spiega il giornalista della Kathimerinì Nikos Xidakis – sembrano pietrificati come dallo sguardo di Medusa. Mancano del tutto le gru, nello skyline bianco già inondato di una luce quasi primaverile: l’atmosfera pare sospesa come in attesa di un aereo o di una nave che non arriverà. La nave, nel concreto, non arriverà perché siamo al principio di febbraio, e da giorni e giorni si protrae lo sciopero a oltranza dei marittimi (spalleggiati in realtà dagli armatori, i quali d’inverno, senza turisti, ci rimettono ad assicurare i collegamenti), duramente colpiti dai tagli di servizi e di stipendio: il risultato è che nel solitamente frenetico porto del Pireo non parte né approda nemmeno un traghetto, per giorni, e gli isolani rimangono isolati o costretti a ripiegare su soluzioni alternative (l’aereo, per le isole che hanno una pista; le navi private, se si trova un compromesso). Nulla di troppo strano, ormai, in questa città dove niente va più da sé: in fondo la serrata della metropolitana è finita l’altro giorno, i blocchi stradali degli agricoltori sono ubiqui in tutto il Paese, e dopo i marinai potrebbe essere il turno dei ferrovieri o degli aviatori. Chi avrà mai scritto, nel punto più panoramico di Atene, sulla garritta più alta del Filopappo, ormai vuota di un custode che lo Stato non ha più i soldi per pagare, la semplice frase: “thelo na pethano” (“voglio morire”)?
Né si creda che l’umanità dolente incontrata laggiù nell’area del Thissìo sia un’eccezione, o un ghetto: chi ha memoria di cosa fosse un tempo il notissimo mercato domenicale di Monastiraki, tra l’Acropoli e piazza Syntagma, sarà colpito nel vederne oggi i prezzi, le merci e la qualità media, specie in una stagione così poco propizia per i turisti. Ed è fin troppo doloroso, nella centralissima via Ermù, contare le vetrine di negozi chiusi e abbandonati che nelle loro scomode rientranze offrono riparo ai cartoni dei senzatetto – anche qui, in vertiginoso contrasto con le stroboscopiche insegne al neon delle catene internazionali che esibiscono, ad uso e consumo dei pallidi residui di classe media, le scarpe coi tacchi alti e leopardati, e l’intimo dal gusto più pacchiano che si possa immaginare; mentre a pochi metri languono da anni i restauri della magniloquente cattedrale ottocentesca, e solo la Piccola cattedrale, secolare bomboniera sincretistica con in facciata i suoi atleti nudi di spoglio, sembra richiamare a una devozione privata e personale quanto la possibile (o impossibile) salvezza.
«I giorni passati restano dietro a noi, / penosa linea di candele spente» (Costantino Kavafis, Candele, 1899)
Il piano-sequenza dovrebbe indugiare a lungo qui, sulle candele offerte dai fedeli al minuscolo ingresso della Piccola Cattedrale; dovrebbe aspettare il calar della sera, il tramonto di una sera d’inverno quando i negozi di Ermù abbassano le saracinesche, e i musei sono ormai chiusi (gli orari d’apertura non superano le 6-7 ore al giorno). Tutti tranne uno, il Museo Benaki, che un giorno a settimana, il sabato, tiene aperte le sue doviziose sale ottocentesche fino a tardi, e offre agli sparuti visitatori un résumé dell’arte più fine prodotta in Grecia dall’epoca cicladica fino alla Rivoluzione del 1821, ivi compresi i costumi popolari, le magnifiche boiseries di Kozani, risalenti all’epoca della Turcocrazia, le icone tardobizantine già mezze occidentali, e i fantasiosi gioielli di età ellenistica e romana. Nell’attico del Museo, in una lunga sala nera, c’è una mostra sulle guerre balcaniche, con tante foto d’epoca, documenti, cimeli e pannelli su quei conflitti che opposero i Greci ai Turchi giusto cent’anni fa, portando a un deciso incremento territoriale del Regno di Grecia, e alla totale ridefinizione dei confini in questa parte di mondo. Queste cartine storiche sono così diverse da quelle appese nei musei di Skopje o di Sofia… ma intanto dalla strada proviene un suono, un ritmo come di canzone frammista a slogan, e allora dalla terrazza del Benaki lo sguardo piove giù sul viale Regina Olga, incongruamente vuoto di automobili e presidiato verso sinistra da gruppuscoli di manifestanti con le bandiere. La canzone – ora si distingue – è “Pote tha kani xasterià” di Nikos Xiluris, una sorta di inno della rivolta studentesca del Politecnico contro i colonnelli nel novembre 1973. Bene, saranno dei nostri…
Ma la macchina da presa, a questo punto, deve zoomare. Deve seguire quei gruppetti, spiegare le loro bandiere greche, accompagnarli alla confluenza dei loro compagni pochi metri oltre il Benaki, pochi metri prima dell’Hilton, in un punto nevralgico di Atene a fianco del sito in cui sorgeva il Liceo di Aristotele (le rovine sono lì, ancora le stanno scavando). La macchina da presa deve scoprire che le bandiere greche sono diventate decine, centinaia, che tra di esse sono spuntate tante bandiere rosse, ma che su quel rosso c’è un simbolo che è tanto simile a una svastica da sembrare uguale; la macchina da presa deve scoprire il grande cartello sulla sinistra del palco “IMIA 1996”, e capire d’emblée che questo è un raduno di Alba Dorata, un gigantesco raduno di uomini dagli sguardi torvi, vestiti di scarponi e giacche nere e armati di torce che brandiscono come mazze: è la fiaccolata per ricordare i 3 ufficiali greci morti 17 anni or sono nella scaramuccia territoriale con la Turchia nata in seguito alla disputa territoriale su uno scoglio disabitato dell’Egeo chiamato appunto Imia. La macchina da presa non sa come svelare che la canzone di Xiluris riprendeva in realtà originariamente una canzone anti-turca (ed è in questa chiave che viene ora qui riproposta, per lo scandalo dei giornali di domani mattina), né come ascoltare con compostezza le deliranti parole con cui il capo Nikos Michaliolakos sobilla le folle sempre crescenti che ha dinanzi, che si mettono in marcia verso i nuovi headquarters del partito (accreditato ormai del 15%), passando dinanzi all’ambasciata americana e poco lontano da un centro sociale (presagi di scontri, pestaggi, fughe in motorino: tanto la polizia arriverà sempre a cose fatte). “Merda / merda / alla tomba di Kemàl”. “Fuori i Turchi da Cipro”. “Turchi buffoni as-sas-si-ni”. “Fuori gli stranieri dalla Grecia”. “La Grecia appartiene ai Greci”. Tutti slogan in rima, scanditi nel passo militare che i battaglioni organizzati nel corteo eseguono in ritmo, ognuno ai comandi di un capo-settore con la testa rasata.
«E di più grande onore sono degni / se prevedono (e molti lo prevedono) / che spunterà da ultimo un Efialte / e i Persiani, alla fine, passeranno» (Costantino Kavafis, Termopili, 1903)
Parole d’ordine che si mescolano ad altre: “Abbasso la Giunta del me-mo-ran-dum” (il memorandum è il piano di lacrime e sangue imposto alla Grecia dalla trojka di UE-FMI-BCE, qui ribattezzata come “Giunta” dagli stessi che hanno appena seppellito con tutti gli onori l’ultimo colonnello della vera Giunta del ’67); “Tsipras, Stournaras, fanculo Che Guevara” (i primi due sono rispettivamente il capo del partito di sinistra radicale e il ministro delle finanze dell’attuale governo); “cialtroni, traditori, politici”, “ordine, esercito, nazionalismo”, “religione, popolo, nazionalismo”, “sangue, onore, alba dorata”. E mentre un fotoreporter sul bordo della strada posa l’apparecchio strabiliato dal numero dei manifestanti (decine di migliaia, un serpente interminabile, e l’anno scorso erano meno della metà), arrivano gli slogan che fanno la gioia del classicista: “Ellàs, Ellàs, i tan i epi tas”, “Grecia, Grecia, o questo o sopra di questo” (il motto delle madri spartane ai figli quando davano loro lo scudo per andare in guerra: dovevano o riportarlo vittoriosi oppure tornare cadaveri sopra di esso); “Molòn labè” “Vieni a prenderle” (il motto dello spartano Leonida rivolto al re persiano che gli chiedeva la consegna delle armi alle Termopili). Non è questa la Germania del III Reich, non è nemmeno il Cile di Pinochet, ma ancora una volta il mito di Sparta fa breccia nella cultura dell’estrema destra militarista e xenofoba, e si oggettiva in una visione delle proprie radici (qui in Grecia, immediate radici) che anni di studi e di università hanno vanamente cercato di estirpare. Chissà che fremiti di orrore pervaderanno le polene delle navi della guerra di liberazione con l’immagine di Leonida e Temistocle, nel Museo Storico Nazionale, a pochi metri da qui, là dove sulle bandiere dei Rivoluzionari campeggiano slogan bellicosi (“libertà o morte”, “vittoria o morte”) volti però alla costruzione di un’identità che oggi, palesemente vacilla. Chissà che aria tirerà, appena dietro le rovine del Liceo, nella residenza del premier Samaràs, nella residenza del Presidente della Repubblica, e nell’ambasciata di Turchia, edifici tutti racchiusi in un fazzoletto.
Fine del film, in una di quelle scene di massa che Anghelòpulos amava, e cui giustapponeva a volte gli sguardi attoniti dell’arte, come quello dell’Agamennone della scultrice Venia Dimitrakopulu, esposto proprio lì nella mastodontica hall dell’Hilton. Maschere, volti di Medusa. E Occidentali chini sulle rovine della Grecia, come nella strepitosa invenzione artistica di Vanghelis Vlachos (al Museo Nazionale di arte contemporanea, anch’esso appena dietro le rovine del Liceo), dove le foto di diversi scavi del ‘900 mostrano archeologi inglesi, tedeschi, americani nell’atto di curvarsi su un mondo passato che cercano di capire, proprio come oggi l’intero establishment economico internazionale si piega sul capezzale della Grecia presente, quasi immemore dei mali che porta.
Perché gli Occidentali, anche se nessuno se ne cura, hanno sbagliato il moltiplicatore. Una parte importante del dibattito politico degli ultimi tempi in Grecia ruota attorno a un errore di conto: l’errore ammesso con rammarico da Olivier Blanchard, economista del Fondo Monetario Internazionale e autore di un importante articolo scritto a quattro mani con Roberto Perotti, docente alla Bocconi e chez nous infaticabile dispensatore di raccomandazioni ai partiti politici e alle università (delle cifre strampalate nel suo libro L’università truccata si è già ampiamente detto altrove). Ebbene, in quell’articolo si sosteneva che per ogni punto percentuale di taglio delle spese statali il PIL arretra di 0.5 punti (in sostanza: taglio un euro a scuola e sanità, e nel PIL perdo 50 centesimi); la realtà è che, nel caso greco e nella congiuntura di crisi corrente, il moltiplicatore non è 0.5 ma si aggira attorno all’1.7 – il che spiega, incidentalmente a posteriori, come mai dopo tre anni di cura della trojka il PIL greco sia in caduta libera. In poche parole, secondo l’ammissione dello stesso Blanchard, sono stati sottostimati gli effetti recessivi delle politiche di austerità. Considerando gli effetti di queste politiche sulla carne viva della società greca, uno si aspetterebbe una reazione, una sollevazione generale, una denuncia. E invece prevale di nuovo lo sguardo di Medusa: il primo ministro Samaràs, che deve parte cospicua della sua poltrona e della sua peraltro traballante maggioranza alla propaganda delle cancellerie occidentali in favore di una classe politica pur largamente corrotta, se ne esce con un casto “nessuno è infallibile”, predicando di continuare sulla strada del rigore, e lasciando ai pochi esagitati di Syriza, il partito della sinistra radicale, l’onere di richiedere con urgenza (e ovviamente invano) un vertice europeo volto a rivedere l’insieme delle politiche di rigore, anzitutto i piani per il rientro dal debito greco.
«Dio mio portaci in un altro Paese / senza illegalità impunità corruzione soldi / neri implicazioni crea per noi una situazione / tollerabile anche mentre il roveto arde…» (Dinos Siotis, Soldi neri, 2012)
Nelle pagine economiche del Vima, il più autorevole giornale di quaggiù, si parla di lenta ripresa, di ritorno della fiducia degli investitori, di prospettive buone per la seconda metà dell’anno. Si soggiunge poi che ci saranno cartolarizzazioni dei beni immobili pubblici, una nuova legge anti-corruzione, un nuovo sistema fiscale per evitare l’evasione (per mostrarsi volonterosi, tutti i negozi ti stampano una ricevuta grande come un lenzuolo anche se compri una matita), lotta al lavoro nero e alle pensioni false. Intanto il governo corre in Qatar, in Turchia, negli Emirati, in Germania, per cercare di attirare investimenti che sostituiscano quelli indigeni, latitanti da anni. Perché poi è vero: le Cassandre sono state smentite, la Grecia è ancora nell’euro, ha perso chi aveva osato dubitare, come i Roubini, i Varufakis (l’economista per il quale la Grecia sarebbe diventata un euro-protettorato come il Kosovo): la data critica dell’autunno 2012 è stata superata. Ma perfino sul Vima si osserva che questa è una stabilità apparente, non dissimile da quella di Weimar: nessuno investe, nessuno compra, salvo forse gli stranieri interessati alla svendita del patrimonio pubblico tramite le privatizzazioni forzose che il governo ha già messo in calendario per i prossimi mesi: la rete degli aeroporti, l’azienda telefonica, la compagnia nazionale di autobus – per chi conosce la Grecia, le tre realtà che, letteralmente, tengono insieme il Paese. Nel frattempo, un milione e mezzo di Greci sono disoccupati, 3 milioni sono sotto la soglia di povertà, i tagli di questa settimana sforbiciano del 44% l’organico di 4 ministeri, mentre quelli della settimana scorsa abbassavano di colpo alcune pensioni da 800 a 550 euro (un metalmeccanico non guadagna più di 700); e i politici, ben chiusi dietro i fortilizi del potere, pensano a come sbianchettare i propri nomi dalle liste internazionali degli evasori fiscali.
Tutto per tornare a crescere, si dice. E intanto poco trambusto, se non in certi ambienti, provocano le cose incredibili che succedono attorno: la distruzione della sanità pubblica, ormai inattingibile ai più; il piano di accorpamenti e riduzioni di corsi di laurea e di interi atenei (nome augurale: “progetto Atena”); gli atti terroristici e di sabotaggio di stampo anarchico o nazista; i pestaggi della polizia sui presunti autori di devastazioni a Kozani (la città delle boiseries del Benaki, nel nord della Grecia) – ventenni anarchici ateniesi brutalizzati per ore nel commissariato della città, prima di essere coperti di una quantità di capi d’accusa tale da far temere una lunga carcerazione, e di essere definiti “terroristi” da un preoccupato ministro dell’interno; ma, quel che è peggio, le foto degli arrestati sono state distribuite ai giornali con ampi ritocchi di Photoshop volti a celare i segni delle percosse, ritocchi poi smascherati dalla stampa e minimizzati come “utili e inevitabili” dalle autorità (del resto, nel corteo di Alba dorata descritto sopra, le decine di migliaia di persone erano tenute a bada da due volanti due: c’erano più poliziotti tra i manifestanti, molti sospettano, che non a pattugliare le strade). E se qualcuno si chiede dove sia la Chiesa in tutto questo, basta che legga il recentissimo libro di Stavros Zumbulakis Alba dorata e la Chiesa per capire come si stia di nuovo configurando quell’atteggiamento ambiguo o a tratti fiancheggiatore che era stato tenuto anche all’epoca dei Colonnelli. E se qualcuno si chiede se l’odio per lo straniero stia attecchendo anche al di là delle scarpe chiodate, basta che passi nelle edicole degli aeroporti dove campeggiano tra i best-seller difficili volumi di storia e di economia come quello di Ghiorgos Romeos, Dal minorenne Ottone alla cancelliera Merkel – 180 anni di presenza tedesca in Grecia o quello di Ghiorgos Maluchos L’ascesa e la caduta dell’Europa tedesca (entrambi Patakis 2012): il primo è dedicato alla continua ingerenza dei Tedeschi, dal primo re di Grecia (Ottone, di stirpe bavarese) all’età dell’occupazione nazista fino al predominio della Merkel sul governo fantoccio di ora; il secondo sostiene invece la tesi che la Grecia sia stata l’alibi tramite cui la Germania ha imposto la propria politica di austerità e di rigore (fondamentalmente antieuropea) per realizzare un disegno egemonico insito nel concetto di Reich e perseguito con determinazione sin dai tempi di Bismarck.
«I morti non sanno che il linguaggio dei fiori: / per questo tacciono, / viaggiano e tacciono, patiscono e tacciono / nel paese dei sogni, nel paese dei sogni» (Giorgio Seferis, Stratis Thalassinòs tra gli agapanti, 1942)
Lentamente, inizia a mobilitarsi l’arte: una raccolta di racconti dal titolo L’impronta della crisi (a cura di E. Bura e M. Chartulari, Metechmio 2013) affronta diversi aspetti dell’abisso, dai pensionati suicidi ai laureati depressi, dai politicanti megalomani allo studente albanese che non sa se diventerà mai un Greco – e intanto scopre che il vicino di banco è nazista. Fino a quel commerciante che perde il negozio, perde la casa ipotecata e finisce per strada abbracciato al suo laptop (splendida trovata di Kallia Papadaki). Alla prossima Biennale di Venezia vedremo tre video di Stèfanos Tzivòpulos dedicati all’Atene della crisi, in cui la protagonista è una vecchia mendicante pazza che crea fiori, fiori e fiori con le banconote di euro. Ma ci vorranno anni perché l’arte metabolizzi davvero ciò che sta avvenendo, il ritorno di fantasmi mai sopiti e il terrore continuo di un precipizio più profondo, lo scollamento fra un popolo disperato e un’élite di giornalisti, di economisti e di intellettuali che vivono ancora bene e disprezzano la miopia dei connazionali, deprecando accuratamente ogni soluzione radicale di un male per cui non conoscono rimedi. Chissà se il viaggio recentemente intrapreso in Germania e in America da Tsipras e da altri esponenti di Syriza (nel frattempo salita nei sondaggi oltre il 27%), avrà contribuito a illuminare almeno le classi dirigenti di alcuni Paesi (le cui opinioni pubbliche, da molti mesi, non sono praticamente per nulla informate di quanto sta avvenendo in Grecia) circa i rischi sociali e culturali che si stanno correndo, e forse a indurre un ravvedimento operoso circa la politica neoliberista seguita quasi ovunque fin qui, e subita con poche rimostranze dalle cosiddette sinistre di governo. Dal canto nostro, non è mestiere rimarcare quanto le tematiche che si affrontano ad Atene (le privatizzazioni, i tagli, la politica di rigore, il rapporto con l’Europa e la Germania) siano di importanza così capitale per il futuro immediato dell’Italia da meritare in teoria un posto di assoluto spicco in una campagna elettorale che invece – fatte salve alcune prese di posizione chiare e distinte – con ostinazione o imbarazzo le schiva.
Nella foto: un lavoratore nel Porto del Pireo durante lo sciopero dei marittimi (AP Photo/Petros Giannakouris)