L’incendio al cinema Statuto di Torino, 30 anni fa
L'incidente - in cui morirono 64 persone - portò alla riscrittura delle norme sulla sicurezza nei locali pubblici italiani
di Rossella Quaranta
Alle 18.15 del 13 febbraio 1983, poco dopo l’inizio della proiezione della commedia francese La Capra con Gérard Depardieu, un cortocircuito mandò a fuoco il cinema Statuto di Torino: morirono 64 delle 100 persone presenti in sala, soffocate dai fumi velenosi prodotti dalla combustione dei materiali sintetici “ignifughi”, e incapaci di uscire dalle porte di sicurezza, chiuse a chiave per impedire l’accesso dalla strada a spettatori non paganti. Quella domenica fu una terribile ferita per Torino, ma anche il punto di partenza per riscrivere le norme sulla sicurezza nei locali pubblici italiani.
Il cinema Statuto, mai riaperto dopo l’incendio e abbattuto nel 1996 per costruire un condominio, era una sala di “seconda visione” da 1200 posti in via Cibrario, a pochi metri dalla centrale piazza Statuto. Da qualche mese era stata ristrutturata, ottenendo una regolare certificazione: tutto a norma di legge. I lavori erano stati gestiti dal geometra Amos Donisotti, che aveva già supervisionato opere simili in altri 120 cinema di Torino e provincia. Quella domenica di febbraio, il film La Capra attirò solo un centinaio di persone, complici una nevicata e il fatto che la pellicola fosse alla tredicesima settimana di proiezione. Le perizie, effettuate nei mesi successivi anche con simulazioni dal vivo (12 sopravvissuti accettarono di partecipare), dimostrarono che l’incendio era partito da un cortocircuito elettrico: le scintille avevano dato fuoco a una tenda, che era poi caduta sull’ultima fila di poltrone. Gli spettatori in platea si accorsero del fuoco, ma trovarono chiuse 5 delle 6 uscite di sicurezza affacciate sulla strada. Alcuni riuscirono a raggiungere l’ingresso ma il proprietario del cinema, Raimondo Capella, temendo il panico, preferì lasciare le luci spente e il proiettore in funzione. Intanto, mentre dalla platea quasi tutti erano riusciti a scappare sfondando le porte, la sala si era già riempita di fumo velenoso, ossido di carbonio e acido cianidrico, prodotto dalla combustione lenta dei materiali usati per l’arredamento: il poliuretano espanso e il tessuto ignifugo delle poltrone (omologato regolarmente), la plastica delle lampade al soffitto, la stoffa delle tende. Quando gli spettatori in galleria si resero conto del pericolo era già troppo tardi: il fumo, salendo, li soffocò nell’arco di due o tre minuti («il tempo massimo in cui si riesce a trattenere il fiato», spiegarono i periti). I soccorsi impiegarono almeno tre ore per tirare fuori gli ultimi corpi: inizialmente, non era nemmeno chiaro che ci fosse qualcuno da salvare. A causa del fumo tossico, i vigili del fuoco entrarono a fatica, trovando i primi cadaveri ancora seduti in poltrona, nel corridoio e a pochi metri dall’uscita. Alle 21.30, ne furono scoperti 12 ammassati nei bagni.
I 64 corpi (31 uomini, 31 donne, un bambino e una bambina) vennero sistemati sul marciapiede, coperti da un telo, e poi in un vicino garage per il riconoscimento: la vittima più giovane aveva 7 anni, la più anziana 55. Il 15 febbraio, in duomo, furono celebrati i funerali pubblici, alla presenza commossa e silenziosa del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. «Il corteo presidenziale – commentò La Stampa – giunto quasi in sordina, si è allontanato in modo altrettanto discreto e, se non fosse stato per l’imponente servizio d’ordine, quasi non ci si sarebbe accorti che il primo cittadino della Repubblica è venuto a Torino». Tra i morti anche una coppia di ventenni, ritrovati abbracciati: le famiglie avevano chiesto che fosse celebrato un matrimonio postumo, e – di fronte all’impossibilità – vollero vestirli da sposi per il funerale.
Le indagini sull’incidente e i controlli a tappeto sulla sicurezza dei locali pubblici, cominciate subito in tutta Italia, mostrarono che le cause e la portata del rogo andavano molto al di là delle responsabilità individuali: era in dubbio l’efficacia dell’intero sistema. Le leggi esistevano, ma erano scritte in maniera troppo vaga e applicate con altrettanto vaga discrezione: ad esempio, la normativa prevedeva che le porte di sicurezza fossero “apribili”, il che – come sottolineato all’epoca su La Stampa da un ingegnere dei vigili del fuoco – «significa semplicemente che non devono essere murate, perché anche una porta chiusa a chiave è apribile, basta avere la chiave». Esistevano già le porte antipanico, con i maniglioni, ma erano poco diffuse e non obbligatorie nei locali pubblici. Oltre a mancare del tutto i rilevatori antincendio, restava il problema degli impianti elettrici e, soprattutto, dei materiali. Il cinema Statuto aveva rivestimenti certificati, a norma di legge perché “ignifughi”: non si considerava la possibilità che, in un incendio, il pericolo potesse arrivare dal fumo e dalle esalazioni tossiche, piuttosto che dal fuoco.
Sessantaquattro persone era morte, insomma, in un locale perfettamente in regola, come certificato un mese prima dell’incendio da sette ispettori: «Avevano guardato dappertutto – raccontò l’ex gestore Capella –. Non c’era una sola lampadina fulminata, niente fuori posto. Si erano complimentati e non mi avevano fatto neanche una prescrizione». Lo stesso si pensava di tanti esercizi pubblici regolarmente aperti e controllati, ma le verifiche portarono alla chiusura (temporanea e non) di ristoranti, discoteche e cinema in tutto il Paese. E ci si accorse che i grandi teatri d’Italia avevano bisogno di modifiche strutturali, anche se la preoccupazione maggiore sembrò quella di dover stravolgere l’architettura in nome di una «ventata moralizzatrice». Così la definiva un articolo del 1° dicembre 1983 su La Stampa (Teatri carichi di storia non antincendio): «Se la normativa di sicurezza venisse seguita alla lettera, il patrimonio artistico rappresentato da questi teatri subirebbe danni irreparabili». L’articolo citava, tra l’altro, proprio il caso della Fenice di Venezia e dei suoi «stucchi in carta pressata e dorata, sotto accusa perché non posseggono quelle caratteristiche di reazione al fuoco richieste dalla legge». La Fenice andò in fiamme, per un incendio doloso, nel 1996.
Mentre il governo e le diverse amministrazioni comunali si davano da fare per mettere in sicurezza i locali, si svolse il processo per l’incidente al cinema Statuto. Le indagini accertarono la causa accidentale, anche se per qualche tempo si è ipotizzato che potesse esserci dietro un piromane, visto che, in una sola settimana del giugno 1982, almeno 3 cinema torinesi (Astor, Ambrosio e Augustus) erano stati presi di mira. E a Torino circola da anni una diceria “paranormale”, tra chi crede nell’esoterismo ed è convinto che a Torino si trovi il vertice di due triangoli magici (quello della magia bianca e quello della magia nera). Degli 11 imputati, 6 furono condannati per aver contribuito – ognuno con le proprie mancanze – all’omicidio colposo plurimo: il proprietario Raimondo Capella a otto anni (ridotti a 2 in appello, sentenza definitiva), il geometra Amos Donisotti a sette anni.
Tra gli altri condannati, anche il tappezziere Antonio Ricci e l’operatore Antonio Iozza (quattro anni), mentre l’elettricista venne assolto per insufficienza di prove. L’ex gestore dovette risarcire i 250 parenti che si erano costituiti parte civile, per una cifra totale di 3 miliardi di lire: vendette tutte le proprietà e, finito sul lastrico, lavorò per tre anni come maschera in un altro cinema torinese, il Romano. Morì nel 2011, dopo aver trascorso gli ultimi anni della vecchiaia lontano da Torino, a Cisano sul Neva in Liguria: in una recente intervista raccontò di essere tormentato dai rimorsi e continuò a ripetere quello che aveva detto fin dalle prime ore successive al rogo: «Sono la sessantacinquesima vittima dello Statuto».