Mohamed Bouazizi, due anni dopo
La storia del ragazzo che il 4 gennaio 2011 morì dopo essersi dato fuoco a Tunisi, dando inizio a cambiamenti epocali in Nord Africa e Medioriente
Negli ultimi due anni il Nord Africa e il Medioriente sono stati attraversati da cambiamenti epocali: manifestazioni e proteste di intensità e forza senza precedenti si sono susseguite con continuità per mesi, regimi apparentemente solidi sono scomparsi – in modi e con mezzi molto diversi – dopo decenni di governi autoritari. In almeno quattro paesi i cambiamenti politici sono stati radicali, in molti altri le proteste hanno generato riforme o hanno indebolito i governi, in Siria si combatte da due anni una sanguinosissima guerra civile. Questi grandi cambiamenti hanno ragioni storiche, economiche, demografiche, che naturalmente partono da lontano. Riavvolgendo la storia di questi fatti, che poi abbiamo chiamato “Primavera araba”, è evidente che la loro scintilla risale esattamente a due anni fa: a quando il 4 gennaio del 2011 morì un venditore di frutta tunisino di 26 anni, Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco qualche giorno prima.
Bouazizi era nato il 29 marzo del 1984 da una famiglia molto povera nel paesino di Sidi Bouzid. Suo padre lavorava in Libia come muratore e morì quando Bouazizi aveva tre anni. La madre Manoubia si sposò tempo dopo con un fratello del marito, con cui ebbe altri sei figli. Bouazizi iniziò a fare lavoretti dall’età di dieci anni per aiutare lo zio – che aveva molti problemi di salute – a portare a casa qualche soldo in più. Da ragazzino abbandonò la scuola e iniziò a lavorare a tempo pieno come venditore ambulante di frutta e verdura: manteneva la madre, lo zio, i fratellastri più piccoli e pagava gli studi universitari di una sorella.
Il Washington Post in un articolo di un anno fa ha raccontato che la sera del 16 dicembre 2010 Bouazizi era molto soddisfatto della frutta che aveva appena comprato, indebitandosi: era convinto che fosse la più bella che avesse mai visto, che avrebbe fatto buoni affari e che avrebbe potuto comprare un regalo a sua mamma. La mattina dopo all’alba imbracciò il suo carretto e andò al mercato del paese. Due poliziotti – tra cui una donna, Fedya Hamdi – gli bloccarono la strada e cercarono di sequestrargli la frutta. Lo zio si intromise per aiutare il nipote: chiese aiuto al capo della polizia che ordinò agli agenti di lasciarlo stare. Bouazizi non aveva una licenza per vendere la frutta al mercato e non era la prima volta che veniva redarguito – e a volte anche maltrattato – dai poliziotti. Non era l’unico: spesso gli agenti confiscavano a proprio piacimento la merce dei venditori approfittando della loro posizione di forza. L’abuso di potere era uno dei problemi più diffusi nella Tunisia di Ben Ali – al governo da 23 anni – insieme alla povertà, alla mancanza di lavoro e alla corruzione diffusa.
Quel giorno la poliziotta Feyda Hamdi, arrabbiata per il richiamo del superiore, andò al mercato, prese un cesto di mele dal carretto di Bouazizi e se lo mise in macchina. Alladin Badri, un venditore che assistette alla scena, racconta che la poliziotta iniziò a trasportare un altro cesto e questa volta Bouazizi cercò di fermarla. Hamdi lo spinse, lo colpì con lo sfollagente e gli sequestrò la bilancia. Poi lo schiaffeggiò davanti a tutti: erano presenti circa cinquanta persone. Il ragazzo scoppiò a piangere per l’umiliazione (aggravata dal fatto che a farlo era stata una donna). Testimoni hanno raccontato che Bouazizi chiese alla poliziotta: «Perché mi fai questo? Sono una persona semplice, voglio solo lavorare».
Bouazizi decise di lamentarsi dell’umiliazione subita: andò al municipio di Sidi Bouzid e chiese di incontrare il governatore della regione o almeno un funzionario, ma un impiegato gli rispose di tornarsene a casa. Il ragazzo andò al mercato e disse agli altri venditori che si sarebbe dato fuoco per mostrare al mondo l’ingiustizia con cui venivano trattati. Uno di loro, Hassah Tili, ha raccontato al Washington Post che «pensavamo dicesse così per dire». Pochi minuti dopo però i venditori udirono delle urla poco lontane. Si precipitarono nella piazza davanti al municipio e scoprirono che Bouazizi si era dato fuoco cospargendosi con una sostanza infiammabile, probabilmente benzina. Qualcuno cercò di spegnere le fiamme gettando dell’acqua e peggiorando la situazione. Altri si precipitarono nell’edificio in cerca di un estintore; lo trovarono ma era vuoto. Altri allora cercarono la polizia ma non arrivò nessuno. L’ambulanza arrivò dopo un’ora e mezza.
Bouazizi venne trasportato in ospedale e i venditori avvisarono sua madre, che nel frattempo stava raccogliendo olive per un dinaro al giorno, l’equivalente di mezzo euro. Successivamente la madre ha detto di essere orgogliosa del gesto del figlio, che aveva contribuito a cambiare le cose, e spiegato che non era stato dettato dalla povertà ma dall’umiliazione che aveva ricevuto e dalla dignità ferita. Anche una sorella del ragazzo ha confermato che la vergogna era stata aggravata dal fatto che il poliziotto fosse una donna.
Il 18 dicembre un centinaio di persone si radunò davanti al municipio per protestare contro il maltrattamento di Bouazizi e le angherie della polizia. La cosa sarebbe forse finita lì o si sarebbe trascinata per ancora pochi giorni, se un cugino del ragazzo non avesse filmato la manifestazione con il cellulare e non l’avesse diffusa su Internet. Il video venne notato da Slim Amamou, un blogger tunisino di 33 anni che da quattro anni raccontava in modo critico il regime di Ben Ali. Amamou rilanciò il video su Facebook che, contrariamente ad altri social network o canali come YouTube, stava crescendo in modo rapido e improvviso in Tunisia e non era stato ancora messo sotto controllo dalla censura del regime. La Tunisia è il paese arabo con il più alto tasso di persone che usano Internet e in pochissimo tempo il video venne condiviso e visto da migliaia di persone. Nel frattempo venne rilanciato anche da Al Jazeera, il canale televisivo – con sede in Qatar – più seguito del mondo arabo. La tv di stato tunisina raccontò la storia di Bouazizi dopo dodici giorni da che si era dato fuoco.
Come spesso accade, la rabbia e la frustrazione accumulata per anni esplose tutta in una volta e migliaia di manifestanti iniziarono a protestare nelle strade delle città tunisine per chiedere maggiore giustizia, posti di lavoro, la fine dello stato di polizia e la punizione di funzionari e poliziotti corrotti. Giovani attivisti si accamparono con tende nella piazza principale di Tunisi, mentre i commercianti si piazzarono davanti alle porte dei loro negozi con le scope in mano per impedire alla polizia di entrare. Il governo reagì ordinando ai cecchini piazzati sui tetti di sparare ai manifestanti.
Ben Ali cercò di ammansire le proteste e riportare la situazione alla calma. Il 28 dicembre fece visita a Bouazizi nel centro specializzato contro le ustioni di Sfax, dov’era stato nel frattempo trasferito. Per la prima volta Ben Ali denunciò le dure condizioni di vita dei venditori ambulanti e invitò la madre del ragazzo nel suo palazzo. Davanti alle telecamere le consegnò un assegno di 20 mila dinari, quasi diecimila euro, ma la donna ha raccontato che lo staff del presidente si riprese l’assegno dopo le riprese. Ben Ali inviò una squadra speciale da Tunisi per investigare sull’accaduto e Feyda Hamdi – che si proclamò sempre innocente, negando di aver schiaffeggiato il ragazzo – venne arrestata. Il tentativo di Ben Ali di placare le proteste andò però a vuoto e le strade di Sidi Bouzid si riempirono anche di soldati inviati dalla capitale per reprimere le manifestazioni.
Dopo la morte di Bouazizi le proteste si intensificarono sempre di più, fino a provocare la caduta del regime: il 14 gennaio il dittatore e la sua famiglia fuggirono dal paese e si rifugiarono in Arabia Saudita. Pochi mesi dopo, il 19 aprile, la famiglia di Bouazizi decise di far cadere le accuse contro Hamdi, che venne scarcerata. Secondo la madre si trattò di una «decisione difficile ma ben ponderata per evitare l’odio e aiutare gli abitanti di Sidi Bouzid a riconciliarsi».
Nel frattempo le proteste di piazza si erano diffuse in altri paesi arabi, che guardavano con speranza e conforto a quello che era accaduto in Tunisia: in Egitto portarono alla caduta del regime di Hosni Mubarak, l’11 febbraio; trascinarono la Libia in una guerra civile terminata dopo un anno e mezzo con l’intervento militare della NATO e l’uccisione di Muhammad Gheddafi; scoppiarono per giorni in Bahrein, pur non ottenendo grossi risultati, e minacciarono anche le monarchie più consolidate come il Marocco, l’Arabia Saudita e la Giordania. In Siria hanno fatto esplodere una guerra civile che dura tuttora e ha provocato più di 60 mila morti.
Ogni paese ha reagito per motivi diversi e ottenendo diversi risultati, pur presentando alcuni tratti in comune con gli altri: le grandi manifestazioni di piazza dopo la preghiera del venerdì, il massiccio utilizzo di Internet – in particolare di Facebook – per organizzare e diffondere la protesta; le alleanze tra classi sociali, religioni e clan tribali pur di abbattere il governo dittatoriale, che nel corso degli anni aveva perso il contatto con le masse che lo avevano portato in qualche modo al potere.
Nel tempo Bouazizi è diventato un eroe: ha ispirato migliaia di ribelli mentre altre persone hanno imitato il suo gesto, gli è stato assegnato postumo il premio Sakharov per la libertà di pensiero, è stato scelto come persona dell’anno dal quotidiano britannico Times e il governo tunisino gli ha dedicato un francobollo commemorativo.
Foto: La madre di Mohamed Bouazizi con due manifesti del figlio a Tunisi, in una foto del 15 novembre 2011 (FETHI BELAID/AFP/Getty Images)