Perché la Biennale è importante
Filippomaria Pontani racconta l'ultima edizione dell'esposizione di architettura a Venezia, meno compiaciuta, più povera e più attuale
di Filippomaria Pontani
Esiste un “terreno comune” fra l’architettura di oggi e i suoi fruitori? Esiste un quid che superi le differenze di stile e di talento tra gli architetti e li accomuni in una ricerca etica e professionale condivisa? A questi temi è stata dedicata (chiude domenica 25 novembre) la XIII Biennale di Architettura, curata a Venezia dall’inglese David Chipperfield e intitolata appunto Common ground: ne ha già parlato per il Post Luca Molinari. Qui vorrei aggiungere alle considerazioni dell’illustre collega un paio di elementi che a mio parere rendono questa mostra di estremo interesse anche per un pubblico di non specialisti.
Va anzitutto segnalata la singolare impertinenza, direi quasi lo stridore, peraltro acuito dal manifesto (“Common / ground” inquadrato e impaginato al modo dei segnacoli dipinti coi nomi delle calli e dei campielli), del tema “Terreno comune” rispetto alla sede ospitante, forse la città italiana più gravida di separazioni, di enclosures, di discriminazioni fondate sulla diseguaglianza sociale: in un tessuto urbano sempre più impoverito, profanato quotidianamente dall’enormità delle Grandi Navi e periodicamente dallo sfarzo degli yacht, fiaccato dalla sistematica repressione dei tanti comitati cittadini, depauperato dalla resa generale al capitale privato (dal Lido a Ca’ Corner della Regina) e da un’ininterrotta emigrazione verso la terraferma, minacciato da progetti stupefacenti come la Sublagunare, la TAV, il Quadrante di Tessera o il teratologico Palais Lumière di Pierre Cardin a Marghera (inserito peraltro tra gli eventi collaterali della mostra!), suona francamente incongruo parlare di spazio pubblico, di architettura condivisa e di urbanistica partecipata.
Né risulta che i promotori veneziani di questa Biennale e delle precedenti abbiano mostrato particolare attenzione al tema dei “beni comuni” quando essi non erano ancora uno slogan mediatico bensì semplice patrimonio di pochi “estremisti”: risuonavano, questi concetti, nei laboratori del “Morion”, del “Rivolta”, là dove oggi giustamente ci si preoccupa del possibile annacquamento di determinate istanze in un indistinto consenso midcult – il pacificante cartone animato degli olandesi MVRDV, nell’ex Padiglione Italia ai Giardini, rappresenta in tal senso un manifesto quasi inquietante dell'”organise collectively” a prescindere dall’idea di conflitto, di interesse, di criticità.
Appare infatti chiaro che il “terreno comune” dell’architettura condivisa può essere inteso in due modi, entrambi peraltro ben rappresentati in mostra: da un lato come l’esito dell’attività progettuale condotta dalla mano pubblica e da funzionari competenti e ben organizzati (quali è peraltro sempre più raro trovare oggidì), dall’altro come il frutto di percorsi di discussione “dal basso” più liberi ma anche più controversi e tortuosi, in quanto svincolati dal quadro istituzionale.
Alla prima categoria si possono ricondurre per esempio i progetti di diversi uffici comunali d’Europa degli anni ’60 e ’70 (da Berlino a Milano a Nanterre) esposti dallo studio OMA nell’ex Padiglione Italia, ma anche la nostalgia per l’ordinato fermento costruttivo della Milano del Dopoguerra, professata poche sale più in là da Fulvio Irace; piuttosto alla seconda tipologia risalgono invece, nel Padiglione americano, le mille “Spontaneous Interventions” di diversa entità e di diverso segno, escogitate da comunità grandi e piccole nell’enorme territorio degli Stati Uniti, o la radicale “Re-appropriation” di spazi perduti documentata nel Padiglione croato, o ancor meglio, di nuovo nell’ex-Padiglione Italia, le più dirompenti pratiche dell’Atelier d’Architecture Autogérée messe in atto nell’ultimo decennio a Parigi, o le tante occasioni di “sviluppo urbano spontaneo” individuate da Else Krasny a Chicago, Vienna, Hong Kong, Porto Alegre…
Il dilemma fra spazio pubblico octroyé programmato legalmente dalle istituzioni, e spazio comunitario autonomamente conquistato o riletto, è inerente al percorso stesso delle Corderie dell’Arsenale, che si apre con la fonte principe del diritto occidentale (la citazione del Corpus iuris di Giustiniano 2.1.1: et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris), e si chiude con un ristorante improvvisato che mima i pasti offerti nella sregolata e fantasiosa occupazione ad usi abitativi della perennemente incompiuta Torre de David a Caracas (la “Ciudad socializante”, secondo la propaganda chaveziana che si ritrova anche nel coloratissimo padiglione nazionale ai Giardini) – uno spettacolo così simile e nel contempo così diverso dai composti e affollati picnic domenicali degli immigrati filippini nell’avveniristico e funzionantissimo grattacielo HSCB di Hong Kong, uno degli storici capolavori di Norman Foster (riccamente fotografato e riprodotto, ancora una volta, nell’ex Padiglione Italia).
La riflessione propiziata da Chipperfield ha poco di astratto o di teorico; anzi, ha molto di attuale. Se questa mostra, infatti, intende dare un panorama dello “stato dell’arte” a livello internazionale, credo emerga con nettezza – almeno per quanto riguarda l’Europa – una realtà tanto prevedibile quanto poco confortante: un’Italia strozzata dall’abusivismo (molto eloquente l’installazione di Alison Crawshaw sullo sviluppo di Roma) e irrimediabilmente volta al passato (il nostro Padiglione, accanto a timidi vagiti di Green Economy, celebra ancora l’epopea di Adriano Olivetti: che arretramento rispetto allo stimolante panorama offerto da Molinari due anni fa); una Grecia che nel proprio Padiglione malcela la violenta disgregazione del tessuto urbano di Atene dietro flebili speranze che la crisi “diventi un’opportunità”; dei Balcani in preda a speculazioni edilizie sregolate (lo si evince qui, per chi non conoscesse direttamente i luoghi, dai Padiglioni di Montenegro e Kosovo); un Portogallo che vive della sempre più declinante memoria di mostri sacri come Alvaro Siza Vieira (Leone d’oro alla carriera 2012), Aires Mateus, Eduardo Souto de Moura; una Spagna tanto piena di idee quanto ormai impossibilitata a metterle in pratica, e costretta a esportare know-how in Norvegia (si veda il padiglione nazionale ai Giardini) e a lasciar fuggire o inaridirsi i suoi talenti più giovani, frutti estremi di un ventennio di grande architettura ormai giunto al termine – è questo il senso della denuncia di Luis Fernández Galiano “Spain, mon amour”, alle Corderie; e commuove, pochi passi più in là, l’attaccamento assoluto di Rafael Moneo alla sua Madrid oggi in balìa degli eventi. Perfino dall’America viene una riflessione sulle case abbandonate di Detroit (“13178, Moran Street”). E allora, viene da chiedersi, perché non affrontare in maniera organica il problema del rapporto fra architettura e potere economico, fra modelli costruttivi e abitativi da un lato e crisi finanziaria dall’altro?
Per converso, mentre i fiduciosi Russi progettano faraoniche città della scienza (a dir poco sconcertante il loro padiglione interamente vuoto, tappezzato alle pareti di codici QR fruibili con un tablet fornito all’ingresso), e i Francesi si trastullano con l’ennesima impossibile riqualificazione delle periferie (stavolta tocca alla Dorsale Est, da Sevran a Aulnay-sous-Bois, proprio là dove gli operai hanno lottato contro la chiusura dello stabilimento Peugeot – ma l’urbanistica dialoga con il sociale?), il ruolo di leadership, una volta di più, è assunto dalla Germania. Ciò non è solo frutto di uno speciale penchant del curatore, attivo a Berlino fra l’altro nel memorabile restauro del Neues Museum, né solo dell’oggettiva prominenza della capitale tedesca – affiancata forse dalla sola Londra – in termini di ri-progettazione urbana negli ultimi 20 anni (spicca in mostra il tributo a Hans Kollhoff).
Che la ragione della supremazia tedesca, in un contesto di “Common ground” come quello ideato da Chipperfield, sia ben più sostanziale, lo documenta il dibattito sul destino dell’aeroporto di Tempelhof a Berlino (Mark Randel), o la vasta sala delle Corderie dedicata al nuovo teatro filarmonico di Amburgo (la vexatissima e ambiziosa Elbphilharmonie), dove si ripercorrono tramite giornali e pamphlets le mille tappe di questo progetto da sempre esposto a un processo bottom-up ma arenatosi, dopo mille polemiche e lievitazioni di costi, a uno stadio di non-finito tanto preoccupante per gli amministratori quanto gravido di suspense per lo storico. Ma ancor più indicativa è la coraggiosa scelta del padiglione tedesco ai Giardini, l’unico a prendere sul serio le parole-chiave del futuro: “Reduce, Reuse, Recycle”, e a sciorinare non già modellini nuovi di zecca o presunte forme aerodinamiche, bensì un campionario di sobri ma efficaci interventi realizzati in diverse città per recuperare edifici pubblici degli anni ’60 e ’70, per lenire il degrado del loro cemento, per dare loro un nuovo senso o talora una nuova funzione nell’estetica dell’oggi, così profondamente mutata. Si tratta di un’idea di recupero non solo come restauro di edifici storici (in mostra c’è un meritato omaggio al veneziano Mario Piana e un altro agli interventi dell’Aga Khan Trust su Aleppo e Damasco, effigiati in fotografie recenti ma ahimè ormai tristemente datate), bensì come prassi costante e fondante anche per gli edifici più anonimi di ieri e dell’altroieri.
Attanagliata da una crisi che la rende più povera, meno pubblicizzata e meno pubblicitaria, questa Biennale abbandona finalmente il compiacimento estetico che avvicinava le precedenti edizioni alle omologhe esposizioni d’arte contemporanea. Essa riserva solo spazi limitati (e anche così un po’ fastidiosi) ai ghiribizzi delle archistar, dalle futuristiche curve di Zaha Hadid ai ponti impossibili su Stoccolma di Jean Nouvel ai filmini enciclopedici dello stesso Foster. Anche quando insiste su questioni di pure forme, lo fa senza arroganza (“architecture is not a knowledge of forms, but a form of knowledge”, ammonisce Bernard Tschumi all’entrata delle Corderie, davanti a Giustiniano), talora quasi in funzione didattica, come per mettere in questione il rapporto fra copia e modello (lo studio FAT, e gli insospettabili accostamenti suggeriti dai Cino Zucchi Architects), o suggerire arditi nessi fra Borromini, Sin’an e Gehry (i video di Farshid Moussavi), fra diversi modi di collaborazione architettonica nel presente e nel passato (lo studio San Rocco). Anche quando va sull’etnico (è il caso della ricostruzione 1:1 della casa indiana di Anuparma Kundoo, che ricorda lo splendido Studio Mumbai nella Biennale di due anni fa) lo fa con garbo e significato, badando al dialogo con i mattoni dell’Arsenale e con le tradizioni costruttive indigene, mai in modo preziosistico o spettacolare. Infine, anche quando si pavoneggia, lo fa lasciandosi scandire a intervalli variabili dalle scintillanti fotografie di Thomas Struth, forse la migliore visualizzazione possibile della progressiva assimilazione che insidia quelle Unconscious Places che sono ormai le metropoli del mondo.
Il visitatore della Biennale di quest’anno, che indaga curioso la preistoria di molti Padiglioni nazionali, e scopre l’esistenza di ville palladiane a Nablus e di basiliche di San Pietro in Costa d’Avorio, viene infine chiamato a riflettere in modo serio sul rapporto con la natura: il padiglione danese parla con coraggio di Groenlandia e dunque di cambiamenti climatici; ma soprattutto dal Giappone vengono ben due progetti nati a tambur battente per far fronte alla devastazione del marzo 2011: di rara efficacia in particolare quello nel Padiglione nazionale, dove si mostra il percorso partecipato che ha condotto gli abitanti di Rikuzentakata a disegnare e avviare una “Home-for-all” là dove lo tsunami aveva raso al suolo ogni cosa. Lo spettatore italiano, memore del dramma aquilano, guarderà a questo modello con sconforto ancor maggiore quando prenderà contezza dei tristi destini delle “New Towns” di ogni latitudine (dall’Africa all’Inghilterra), destini studiati dai Crimson Architectural Historians in un allestimento tanto geniale quanto documentato nell’ex Padiglione Italia. Anche sotto questo profilo, la mostra di Chipperfield invita a meditare concretamente sulla prassi architettonica contemporanea, e lascia già intravedere in filigrana dilemmi e tensioni che fra due anni, all’apertura della XIV edizione, potrebbero essere già esplosi.
Foto: un’immagine del padiglione cileno. (TIZIANA FABI/AFP/GettyImages)