Il public editor del New York Times
Cosa è il delicato (e da noi inconcepibile) ruolo di "controllore" nei quotidiani americani, per cui al New York Times è stata appena nominata la prima donna
di francesco marinelli
Domenica scorsa Arthur Brisbane ha scritto il suo ultimo articolo come public editor del New York Times, dopo due anni, elencando una serie di questioni etiche che secondo lui riguardano il giornale. Il public editor è un ruolo assegnato da alcuni quotidiani americani a un giornalista che ha il compito di sorvegliare che la testata segua principi giornalistici condivisi, come la veridicità di ciò che viene scritto, l’originalità degli articoli, l’obiettività nell’esposizione dei fatti, la neutralità e l’assenza di conflitti di interesse, eccetera. Ha poi il compito di indicare in articoli rivolti ai lettori violazioni e omissioni rispetto a questi principi.
Il ruolo (in alcuni giornali è chiamato Ombudsman, in altri Readers Editor), come si capisce, è delicato e particolare: ignoto e inconcepibile (o comunque inconcepito) per i giornali italiani, prevede non solo indipendenza dal giornale che lo ospita e che lo stipendia, ma il mandato stesso di contestarne le mancanze. Il public editor di solito racconta e commenta in una rubrica settimanale gli articoli e le inchieste dei suoi colleghi e risponde alle lettere del pubblico, ed è un dipendente della testata come tutti gli altri. Tra i grandi giornali e media che hanno un public editor negli Stati Uniti ci sono il Washington Post, il Los Angeles Times, la radio pubblica NPR. Il New York Times lo ha introdotto nel 2003, dopo lo scandalo che coinvolse Jayson Blair, un giornalista accusato di plagio e di aver inventato alcune notizie. Da quell’anno il public editor viene scelto come voce indipendente tra alcuni giornalisti di esperienza presso altri giornali. Fuori dagli USA, ha un public editor il Guardian inglese: qui la lista di altre testate.
Al New York Times capita spesso che ci siano occasioni di conflitto e discussione tra il public editor e il giornale. Prima della scadenza del suo mandato, qualche settimana fa Arthur Brisbane aveva raccontato in un articolo che l’editorialista Maureen Dowd aveva chiesto a Mark Mazzetti, un collaboratore del New York Times che si occupa della sicurezza nazionale a Washington, di aiutarla a verificare alcune cose, per un articolo che stava scrivendo e che doveva essere pubblicato il 7 agosto 2011. L’articolo raccontava il comportamento della Casa Bianca e del suo legame con alcuni ambienti di Hollywood, riguardo l’uscita del film sull’uccisione di Osama bin Laden, Zero Dark City. Oltre ad averla aiutata però, Mazzetti ha inviato una email a una portavoce della CIA con il contenuto dell’articolo, sottolineando che non si trattava di un suo pezzo, di cancellare l’email dopo averla letta e che non c’era «nulla di cui preoccuparsi».
L’articolo di Maureen Dowd raccontava come i registi del film, Kathryn Bigelow e Mark Boal, avessero avuto accesso ad alcune informazioni riservate, fornite dai servizi segreti americani. Inoltre, nell’articolo si diceva che «la Casa Bianca è fiduciosa che il film di Kathryn Bigelow e Mark Boal esalti la reputazione di Obama nel prendere decisioni importanti. Il film uscirà il 12 ottobre, giusto in tempo per dare impulso alla campagna elettorale». Il contenuto dell’email è stato reso pubblico dopo la denuncia presentata da Judicial Watch, un’associazione di avvocati che cerca di controllare la trasparenza del governo americano. Secondo Brisbane quel «vedete, non c’è nulla di cui preoccuparsi» va oltre l’aver controllato un fatto con la propria fonte confidenziale (in questo caso una portavoce della CIA), per assicurarsi di aver scritto cose vere.
«Qualunque sia stata la motivazione del signor Mazzetti, è una chiara violazione aver divulgato il contenuto di un articolo prima della sua pubblicazione. Questo va oltre il normale “dare e avere” che caratterizza la gestione del rapporto con le proprie fonti e suggerisce l’assenza di una libera relazione tra un giornalista e quelli con cui si ha a che fare».
Il public editor ha chiesto a Jill Abramson, la direttrice del New York Times, se Mazzetti avesse inviato la mail per fare un favore a una propria fonte. E lei ha risposto: «Non sono in grado di fornire i motivi per cui Mazzetti ha inviato l’intero contenuto dell’articolo, ma è sicuro che Mazzetti non stava facendo un favore alla CIA». Nel codice interno che regola il comportamento dei giornalisti non ci sarebbe però una norma che regola questo tipo di rapporto, sostiene Brisbane. Si parla in modo generale di «non poter chiedere alcun vantaggio per sé o per altri, nel divulgare informazioni non ancora rese pubbliche». E parlando con alcuni giornalisti ne ha avuto conferma: il senso che viene dato a quella norma viene interpretato in maniera molto arbitraria e si riferisce soprattutto ai guadagni di tipo materiale e finanziario. Non esiste una norma che stabilisce i limiti e i confini nei rapporti tra i giornalisti e le fonti, né regole sulla condivisione degli articoli, per verificare i fatti prima che siano pubblicati.
In un altro articolo pubblicato domenica scorsa Brisbane ha spiegato invece che il giornale ha un approccio troppo parziale nell’affrontare alcuni temi e di non seguire una linea indipendente e neutrale, come dovrebbe. Nello specifico di avere un «approccio molto liberal». La maggior parte dei giornalisti «condivide una sorta di progressismo politico e culturale che permea tutto il giornale». Su alcuni temi c’è parzialità, come per esempio con il «movimento di Occupy Wall Street o i matrimoni gay che vengono trattati come cause più che come fatti».
Brisbane ha concluso il suo ultimo articolo da public editor sostenendo che «la carta stampata è poco trasparente e questo succede anche al New York Times, nonostante gli sforzi per migliorare questo problema negli ultimi anni». Jill Abramson ha risposto di non essere d’accordo: «per alcuni temi sociali e culturali il New York Times riflette semplicemente l’orientamento della sua base cittadina e cosmopolita». Il nuovo public editor del New York Times è Margaret Sullivan, ex vice presidente del Buffalo News.
Foto: Mario Tama/Getty Images