Gli ultimi 56 giorni di Borsellino
Dal libro di Enrico Deaglio, la cronologia degli avvenimenti tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio, vent'anni fa: 17 luglio 1992
Il nuovo libro di Enrico Deaglio – “Il vile agguato“ (Feltrinelli) – è dedicato alle indagini sulla strage di via D’Amelio a Palermo in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino assieme a cinque agenti della sua scorta, il 19 luglio 1992. Il libro si conclude con una “succinta cronologia degli ultimi cinquantasei giorni di vita di Paolo Borsellino, compresi avvenimenti che avevano a che fare con lui, ma di cui non era a conoscenza”. Il Post pubblicherà in sequenza, assieme al secondo capitolo del libro, la successione di quegli eventi, a vent’anni di distanza.
Palermo, giorno imprecisato tra il 14 e il 17 luglio
Borsellino incontra privatamente in un residence di Punta Raisi il magistrato Alberto Di Pisa, che fu accusato di essere stato il Corvo, l’autore di lettere anonime contro Giovanni Falcone.
17 luglio, Parisi
Ultima trasferta a Roma di Paolo Borsellino, che incontra il capo della polizia Parisi e gli chiede nuovamente di rafforzare la sua scorta. Alle 15 atterra a Punta Raisi, si reca in procura dove abbraccia uno per uno i colleghi, molto stupiti. Torna a casa la sera e chiede alla moglie Agnese di accompagnarlo per una passeggiata sulla spiaggia a Villagrazia.
Questa passeggiata del marito e della moglie, soli e in riva al mare, è stata rievocata da Agnese Borsellino in un interrogatorio del 2009. Agnese raccontò che Paolo era molto scosso, che le disse di aver “visto la mafia in faccia”, che era stato male e aveva addirittura vomitato. E le confidò che il generale Subranni, il capo del Ros, era “punciutu”, termine con il quale in palermitano si indicano gli affiliati alla mafia. E con questa rivelazione, tutto diventa paradossale e incomprensibile. Subranni, a capo del Ros, da cui dipende la sicurezza di Borsellino, è il generale che il 19 giugno aveva firmato un rapporto in cui si informava che “numerose fonti, mafiose e non” avevano annunciato la decisione di uccidere il giudice. Ora Borsellino confidava alla moglie che il generale era un affiliato a Cosa nostra.
Quindi, quella terminologia – fonti mafiose e non – poteva acquistare un altro significato. Se Subranni era mafioso, la fonte mafiosa era semplicemente lui stesso. Ma le fonti “non mafiose” chi erano? E come sapeva il generale che anche altri, oltre alla mafia, volevano uccidere il magistrato?
Forse chi aveva fatto quella confidenza a Borsellino si era sbagliato, o lo aveva voluto trarre in inganno. Ma se Borsellino ci aveva creduto, chi gliel’aveva detta doveva avere titoli, credibilità, prove. Chi poteva essere? Gaspare Mutolo? Il suo fidato tenente Canale? Leonardo Messina? La polizia?
E perché Borsellino non lo disse a nessun altro, se non alla moglie, sulla riva del mare, due giorni prima di essere ammazzato, esattamente come aveva previsto il generale Subranni?