Napoli, Tivoli, Venezia: storie di artistici disastri
Filippomaria Pontani racconta a chi è stata affidata una preziosa biblioteca, la montagna di rifiuti che incombe su Villa Adriana, e le navi da crociera che solcano prepotenti i canali veneziani
di Filippomaria Pontani
Da più parti si levano cori e appelli in favore di un migliore sfruttamento del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese. Delle contraddizioni insite in taluni di essi (per esempio in quello, assai fortunato, promosso dal giornale di Confindustria) ha scritto con competente acume Tomaso Montanari, un coraggioso storico dell’arte che incontreremo in azione tra qualche riga: lo stesso concetto di “sfruttamento”, e la soggiacente idea – peraltro ampiamente messa in pratica – che la cultura rappresenti in via primaria un business, meriterebbero infatti più di una riflessione critica.
Qui intendo più modestamente presentare tre esempi che mi stanno a cuore e che conosco più o meno direttamente. Pur nella diversità (ma sono tra coloro che, giusto l’art. 9 della Costituzione, considerano alla stessa stregua l’integrità del paesaggio e l’integrità del patrimonio storico e artistico nazionale), essi testimoniano almeno tre realtà:
– preoccupanti carenze nelle istituzioni preposte al controllo e alla gestione dei beni culturali e dell’ambiente;
– una diffusa tendenza alla commistione di affari e logiche politiche all’interno di processi che dovrebbero avere per obiettivo esclusivamente la publica utilitas (non solo la bellezza e la memoria, ma anche la salute);
– la malcelata ostilità – che sfocia talora in vere e proprie forme di intimidazione – nei confronti di chi pone il problema (purtroppo sempre troppo pochi, soprattutto all’interno dell’ipergarantita casta degli intellettuali).
Forse chi lamenta la disaffezione dei cittadini rispetto ai partiti dovrebbe meditare sulla distanza tra la politica ufficiale (con alcune significative eccezioni) e i mille comitati e le mille iniziative popolari di cittadini che per fortuna in ogni angolo del Paese ancora si mostrano vigili sui destini del loro territorio e del loro passato. Del resto, come indica Salvatore Settis nel capitolo conclusivo del suo aureo Paesaggio Costituzione Cemento (Einaudi 2011), è proprio da quei comitati e da quelle iniziative che, forse, fia salute.
Faremo iniziare il Grand Tour, per una volta, dal Mezzogiorno.
1. Napoli. Nell’autunno 2011 dovevo consultare per ragioni di studio un codice greco del XV secolo conservato presso la Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, nel cuore di Napoli. Non è un accadimento strano per un filologo: quella biblioteca è infatti uno degli istituti di cultura più venerandi d’Italia, ricco di codici, incunaboli, spartiti musicali raccolti a partire dal tardo XVI secolo; un patrimonio curato, ampliato e consultato per decenni, tra gli altri, da Giovan Battista Vico. Avevo già visitato come studioso la biblioteca nel 2000, e – pur nell’evidente sofferenza di un Complesso glorioso ma tormentato dal tempo e dalle vicissitudini storiche (nel 1980, proprio quando stava per risorgere a nuova vita come sede dell’Istituto di Studi Filosofici, alcuni terremotati occuparono stanze dell’attiguo convento, e l’Istituto fu allocato altrove) – tutto aveva funzionato a meraviglia, anche grazie alla solerzia di esperti bibliotecari.
Questa volta, invece, consultare il manoscritto sembrava un affare complesso: appuntamenti da fissare dopo settimane, disagi dovuti a una fase di “grande riordino” dei fondi promossa dal nuovo direttore, apparente difficoltà di reperire i singoli libri. Nel marzo scorso, finalmente, riesco a ottenere il permesso di esaminare il codice, e mi precipito a via Duomo 114, giusto davanti alla Cattedrale. Ciò che rilevo, nelle poche ore in cui mi trattengo, è quanto meno inquietante: cataste di libri gettati in terra nell’androne senza alcuna protezione (dettaglio singolare: le pile di volumi recano in cima opere novecentesche di scarso valore, e in basso preziosi esemplari del ‘600 e del ‘700), un certo viavai di oscuri personaggi, una generale impressione di disordine malcelata dai pur solerti funzionari. In compenso, un dépliant reclamizza una serie di “incontri culturali, letterari e simili” che aprono il complesso alla cittadinanza: presentazioni di libri, discussioni su temi religiosi, financo proiezioni di film.
«Questa disavventura del Vico, per la quale disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria…»
(G.B. Vico, Autobiografia).
Una breve indagine sul web, stimolata da amici più addentro di me, aggiunge un tassello importante: dal 2 giugno 2011, infatti, la direzione della Biblioteca era stata affidata da don Sandro Marsano (il Conservatore che presiede all’intero Complesso dei Gerolamini, il quale è un Monumento Nazionale tutelato dallo Stato ma posseduto appunto dalla Congregazione oratoriana: di altissimo valore anche la Quadreria) al 39enne Marino Massimo De Caro, consulente riccamente retribuito del ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan, e ora del suo successore Lorenzo Ornaghi. Per combinazione, proprio in quei giorni di marzo esce un libro in cui De Caro ha un ruolo non trascurabile: ma non si tratta di un manuale di biblioteconomia o di uno studio su Vico, bensì de Il sottobosco, di Ferruccio Sansa e Claudio Gatti (Chiarelettere), una lettura peraltro istruttiva per gli intellettuali che nutrono ancora qualche illusione sulla reale caratura ideale della lotta politica in Italia. Lì, alle pp. 16-46, in base a risultanze di inchieste giudiziarie (peraltro ancora in corso) e ad intercettazioni telefoniche, si documentano ampiamente le attività del De Caro come mediatore nella compravendita di petrolio venezuelano per conto di Jacopo e Marcello dell’Utri e tramite contatti col latitante Aldo Micciché (noto faccendiere della ‘ndràngheta), nonché in altre più o meno edificanti opere di intermediazione economica e politica, peraltro consone alla sua qualifica di amministratore delegato della società Avelar Energy, del gruppo Renova. Meriti che nel 2008 per poco non fruttano a De Caro un seggio in Parlamento.
È quindi Tomaso Montanari, coraggioso amico e collega che insegna proprio all’università “Federico II” di Napoli, a interessarsi alla questione e a scriverne sul “Fatto” e poi sul “Corriere del Mezzogiorno”, in articoli in cui racconta della sua propria esperienza della biblioteca e del suo direttore (un grosso cane che vi scodinzola liberamente, lattine di Coca Cola a fianco delle cinquecentine, un’avvenente segretaria ucraina che dorme nel convento), e che scoperchiano altri due aspetti interessanti del nuovo direttore dei Girolamini. Anzitutto, risulta che egli, dopo esser stato coinvolto in indagini in Argentina per la sottrazione di un libro di Borges (ne è poi uscito senza accuse), abbia gestito per anni una libreria antiquaria a Verona, la «Imago Mundi – Italia», filiale di quella argentina il cui socio è stato indagato per frodi in Spagna e in Uruguay; De Caro medesimo, come raccontano Gatti e Sansa, è stato pure indagato a Milano per la ricettazione di un incunabolo trivulziano dell’Hypnerotomachia Polyphili (1499), procedimento poi archiviato perché il libro non s’è più ritrovato (col che è stata finalmente possibile la sua sospirata nomina a console onorario del Congo). Non si farà peccato a ravvisare proprio nell’interesse per il commercio librario uno dei traits d’union tra De Caro (nato alla cosa pubblica come consigliere comunale del PD di Orvieto, dove diresse anche la Biblioteca del Duomo, e conoscente per via di madre di Massimo D’Alema) e magnati come il russo Vekselberg, o come il noto bibliofilo Marcello dell’Utri, il quale, oltre a sdoganare i presunti diari di Mussolini, anima tra le altre cose una vivace attività nella sua Biblioteca di via Senato a Milano.
«Qui poco si dice e si lascia molto a pensare»
(G.B. Vico, Scienza nuova)
L’altro aspetto interessante del De Caro, acclarato da Gian Antonio Stella , è che egli vanta bensì di essere “professore onorario” (anzi, come ebbe a dire in un’intervista al TG1, “professore emerito”, dicitura di cui evidentemente ignora il significato) presso la neonata (1995) Universidad Abierta Interamericana di Buenos Aires, ove avrebbe professato la Storia della Scienza, e ove avrebbe conseguito alti onori nel 2004 in séguito al dono di alcuni libri antichi e di un meteorite (nel sito più propriamente si parla di “doctor honoris causa”), ma non risulta si sia mai laureato presso l’università cui è stato iscritto dal 1992 al 2002, ovvero quella di Siena. Non dico “laureato in biblioteconomia, o in beni culturali”: sembra che il De Caro non si sia laureato tout court, nemmeno nelle discipline economiche che dichiara di avere studiato, e che certo sono più consone al suo ricco curriculum di esperto di energie rinnovabili, responsabile locale dell’INPDAP, mercante di libri, e, da ultimo, piazzista di petrolio (perché non riprendere lo slogan di un vecchio governo, “laureare l’esperienza”?).
Il resto è affare di cronaca, locale e nazionale: dopo gli articoli di Montanari, la petizione a Ornaghi promossa da un altro docente della “Federico II”, Francesco Caglioti , e l’inevitabile intervento della magistratura, il De Caro è corso in Procura a denunciare la sparizione di 1500 volumi, attribuendola alle passate gestioni, e vantando il proprio salvifico intervento. In realtà si trattava non già di una scoperta del vendicatore De Caro, bensì di libri scomparsi decenni fa, e da anni segnalati come “mancanti” in un apposito schedario (tutte le biblioteche posseggono un cassetto dei “libri mancanti”), nell’ambito di quel prezioso lavoro di catalogazione e ordinamento dei fondi dei Gerolamini intrapreso dal predecessore di De Caro, padre Giovanni Ferrara, e dai bibliotecari che con amore e pazienza, spesso in condizioni difficili e senza alcun riconoscimento economico né d’immagine, avevano lavorato con lui. Ben più inquietanti delle tardive denunce del Direttore sono le testimonianze di gente del quartiere (ora, sembra, corroborate da filmati delle videocamere di sorveglianza), secondo le quali negli ultimi mesi, certe notti, c’era un grande viavai di furgoni dinanzi alla Biblioteca; non meno allarmanti, poi, le prime ispezioni che sembrano constatare dei vuoti negli scaffali del piano nobile, e una movimentazione di materiale (deposizione in casse, pare alcune addirittura pronte a partire) eseguita senza alcuna certificazione o autorizzazione da parte del Ministero – è appena il caso di ricordare che in una biblioteca di decine di migliaia di volumi spostare un libro senza un accuratissimo e condiviso piano di ricollocazione equivale de facto a smarrirlo.
«Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano»
(G.B. Vico, Scienza nuova)
Sarà l’inchiesta ora in corso ad accertare le dinamiche e le responsabilità: per ora la Biblioteca è sotto sequestro, le chiavi sono affidate al direttore della Nazionale di Napoli, e si auspica la creazione di una task force che constati e possibilmente ripari il disordine prodotto negli ultimi mesi, e gli eventuali ammanchi. Si auspica soprattutto che il ministro Ornaghi, dopo aver finalmente cacciato il De Caro dal ruolo di proprio consigliere, faccia in modo che gli venga revocata la nomina a Direttore della Biblioteca, nomina che come detto spetta al Conservatore dell’Ordine, e che ci si augura finisca in mani più salde: altrimenti, sarà stato (quasi) tutto invano.
Ma, anche nella migliore delle ipotesi, questa vicenda apre almeno 3 àmbiti di riflessione collegati:
a) è stato possibile che una delle biblioteche più importanti d’Italia venisse affidata a un personaggio che (al di là dei sospetti che gravano sul suo passato di commerciante in libri) non aveva alcun titolo per ricoprire quell’incarico, laddove nelle nostre università laureiamo e addottoriamo ogni anno dozzine di eccellenti bibliotecari, conservatori e specialisti del libro antico, costretti per lo più (quando non a una triste disoccupazione) a lunghissimi precariati da “custode” in attesa di rarissimi concorsi, oppure all’emigrazione verso altri Paesi;
b) questa nomina è stata accettata senza colpo ferire da un Ministero che avrebbe viceversa disperato bisogno di competenze, e dove ci si chiede se le attività di “promozione di eventi” così copiosamente praticate dal De Caro abbiano in qualche modo fatto obliterare una certa disinvoltura nella gestione ordinaria della biblioteca; del resto, che qualcosa nel Ministero non vada per il verso giusto lo si potrebbe arguire anche solo dal fatto che la direttrice del benemerito Istituto Centrale di Patologia del Libro (preposto ai restauri dei volumi antichi), Maria Cristina Misiti, è la moglie di colui che è diventato il più importante restauratore privato italiano, guarda caso fortunato detentore di non pochi incarichi proprio da parte delle biblioteche statali: forse in queste materie il conflitto d’interessi non varrà;
c) la denuncia di una situazione così evidentemente insostenibile come quella dei Girolamini è partita tardivamente: è impossibile pensare che prima di me e di Montanari nessun altro studioso o intellettuale (intendo tra noi più o meno “garantiti”, non ovviamente tra i “deboli” comprensibilmente impauriti dinanzi alla potenza dei personaggi in gioco) avesse avuto qualche sospetto. In passato, del resto, qualcuno non dev’essere andato tanto per il sottile, se tra il 2005 e il 2007 il De Caro è stato imbarcato in un “Master in Editoria e Management del libro” tenuto presso l’Università di Verona.
Ma la cosa più significativa è un’altra: a séguito del loro intervento, Montanari e Caglioti sono stati fatti segno (oltre che ad attacchi di stampa da parte della senatrice De Feo, peraltro moglie di Emilio Fede) a un’interrogazione parlamentare promossa da due deputati di area dellutriana (De Caro è coordinatore dell’associazione politica “Il Buongoverno”). In tale interrogazione si chiede al ministro dell’Università di verificare se le denunce di questi due professori – cui in un Paese normale si dovrebbero rendere pubbliche grazie per aver sollevato la questione, ripeto totalmente a prescindere dall’esito dell’indagine – siano “compatibili” con la loro attività d’insegnamento (!). In quell’interrogazione si disegna così con chiarezza l’immagine di un potere che concepisce il ruolo dell’intellettuale come giullare e intrattenitore, o al più come arcigno studioso chiuso nel suo mondo di carta; un potere che contesta in linea di principio la liceità che l’uomo di cultura si occupi della cosa pubblica, perfino nelle forme che più direttamente lo riguardano.
2. Tivoli. Qualche settimana fa sono tornato dopo anni alla Villa Adriana di Tivoli, uno dei monumenti archeologici più importanti del nostro Paese, non solo per l’imponenza e la vastità del complesso (almeno 120 ettari, ancora in parte da scavare), ma anche per la sua unicità tipologica, giacché si tratta di una sorta di “piccola città” costruita a immagine e somiglianza dell’imperatore Adriano, raffinato intellettuale imbevuto di cultura greca. Siamo dinanzi in altre parole, per chiunque abbia anche remotamente a cuore la cultura occidentale (per una volta la definizione di “patrimonio UNESCO” è incontestabile), anzitutto a un “luogo dello spirito”, un “paesaggio intellettuale” (P. Gros), dove il portico diventa la “Pecile” (dal nome dell’omonima stoà nell’agorà di Atene), il laghetto prende il nome dal Canopo sul Nilo dove morì Antinoo, la valletta verso il torrente viene nominata “Tempe” sul modello delle mitiche balze di Tessaglia, e insomma si ricrea a pochi chilometri da Roma un mondo scandito dalla sapienza ellenica esperita dall’imperatore nel corso dei suoi incessanti viaggi per il mondo. Non è un caso che a questo complesso si siano ispirati artisti e architetti da Pirro Ligorio (che fu tra i suoi primi studiosi e fruitori) a Frank Lloyd Wright, da Piranesi a Fragonard fino a Giovanni Arcangeli (si veda per quest’ultimo il catalogo della mostra Villa Adriana – Dialoghi con l’antico, Electa 2011); non è un caso che da qui provengano alcune delle statue romane più importanti nei musei di tutto il mondo; e non è un caso che proprio qui siano ambientate diverse pagine di uno dei libri più evocativi del ‘900, le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Dunque arrivo. Per non risultare molesto, sorvolerò sulla difficoltà di reperire mezzi pubblici, sulla fila di 45 minuti alla biglietteria (un solo sportello aperto nel giorno di Pasquetta), sull’incongruità del vasto edificio moderno posto all’entrata (peraltro, a quanto pare, solo in parte funzionante come “accoglienza”), sui pannelli esplicativi spesso fatiscenti, sul severo malfunzionamento delle latrine del Museo del Canopo (l’unico gabinetto disponibile nella vastissima parte nord). E sorvolerò anche sulla chiusura di parti non piccole del vasto parco archeologico, lamentate di recente da Silvia d’Onghia: le obiezioni più forti al percorso come attualmente concepito sono state ben esposte da Federica Chiappetta su «Art e Dossier» del marzo 2012, e mettono in luce come al visitatore rimanga sostanzialmente preclusa la comprensione del sofisticato meccanismo “urbanistico” di questo microcosmo progettato da Adriano nei primi decenni del II secolo a.C. (la stessa Chiappetta ha offerto un’audace e affascinante ricostruzione dei movimenti di ospiti, padroni e servitori nel bel libro, I percorsi antichi di Villa Adriana, Roma 2008; un riassunto delle diverse interpretazioni recenti, filosofiche e misteriche, dell’assetto della villa, si ha per es. in Y. Roman, Adriano, Roma 2011, 250-74).
Non intendo invece sorvolare sugli striscioni che accolgono il visitatore da qualunque parte egli arrivi, e che denunciano con toni forti lo scempio epocale della discarica di Corcolle: denunciano cioè il progetto di destinare all’uso di discarica per l’immondizia una vasta cava di pozzolana in disuso sita a meno di un chilometro in linea d’aria dal parco di Villa Adriana, appunto nel ridente comune di Corcolle, nel bel mezzo dell’agro tiburtino. In quel sito verrebbero sversati i rifiuti urbani di Roma, che la famigerata discarica di Malagrotta, da anni ormai satura e da anni prorogata, a partire dal 30 giugno non potrà (non potrebbe) più fisicamente assorbire. La mobilitazione di agguerritissimi comitati locali (eccellente il loro sito, dove si trovano tutte le informazioni del caso; pure molto buono quest’altro), un fortunato servizio di «Report», una petizione di archeologi e appassionati di diversi Paesi, e una mobilitazione promossa da Philippe Daverio nell’ambito del suo progetto “Save Italy”, hanno puntato l’attenzione sul rischio che Villa Adriana venga lambita dai rifiuti, e olfattivamente invasa dal loro lezzo. L’interessamento del ministro Clini, che ha preso a cuore la questione, sembrava avere scongiurato il rischio, ma in realtà la decisione definitiva è ancora da prendere, e coinvolge una questione più ampia, la quale dà anche una risposta all’interrogativo che sorge più spontaneo: “a chi è passato per la testa di mettere una discarica proprio lì?”.
«In questi giorni sono stato a Tivoli e ho visto uno dei primi spettacoli della natura. Le cascate insieme alle rovine e a tutto l’insieme del paesaggio appartengono alle cose la cui conoscenza ci rende in senso profondo più ricchi»
(J.W. Goethe, Viaggio in Italia)
La questione, dunque, è duplice.
a. Da un lato c’è il consumo di suolo, e il connesso concetto di tutela del paesaggio, che nel caso di Tivoli e dell’agro romano trova una delle sue declinazioni più interessanti (in una maniera forse perfino più lampante che nella non meno martoriata pianura veneta, o nella variamente seviziata Campania felix). Si tratta infatti di un luogo dall’aura immateriale sedimentata nel corso dei secoli, buen retiro del poeta latino Tibullo che secondo Orazio vi passeggiava tra le «silvae salubres» pensando e scrivendo (Epistole 1.4.2: alcuni archeologi sostengono che il «Pedum» citato da Orazio sia proprio Corcolle), e poi oggetto di infinite vedute dei pittori di mezzo mondo, come parte integrante del Grand Tour tramite il quale i viaggiatori stranieri entravano in contatto con quella che allora era la prima e fondamentale sorgente della bellezza, l’Italia – ancora nel 1782 Wilhelm Heinse descriveva Tivoli come «il luogo più salubre attorno a Roma, dove la natura è molto più viva, e tutto è più coerente, più integrato, più grande, più nobile che a Frascati e Albano».
Oggi quel paesaggio, fatto di imponenti acquedotti romani (qui passavano tra l’altro l’Aqua Marcia e l’Aqua Claudia: si veda per esempio il magnifico resto di Ponte Lupo) non meno che di minuscole cascine, di pascoli e di risorgive, è stato largamente e pervicacemente aggredito dal cemento, assai meno per lo sviluppo di attività produttive che per una malposta e caduca speculazione edilizia, pronta a cannibalizzare ettari di terreno e soprattutto a turbare in modo talora irreversibile le risorse idriche e naturali. Del resto, basta osservare il panorama della cosiddetta “Valle di Tempe”, o quello che si gode dal ponte sull’Aniene nell’abitato di Tivoli, oppure di riflesso constatare com’è tenuta, a livello architettonico e di decoro urbano, la città stessa. Per non contare che già ora nell’agro tiburtino le associazioni dei cittadini e gli osservatorî lamentano preoccupanti aumenti dei tumori, attribuiti all’inquinamento dei cementifici, delle cave, delle cartiere, delle discariche già esistenti, tutte a insistere su un territorio limitato e forse sovraccarico.
In questo contesto, non stupisce che proprio nel comune di Villa Adriana, a poche centinaia di metri dal parco archeologico, da trent’anni sia stata progettata una gigantesca colata di cemento di un milione di metri cubi, che solo grazie agli interventi ostinati di Italia Nostra, del WWF e di comitati locali è stata progressivamente ridotta ai 180mila attualmente in programma. Questo famigerato “progetto Nathan”, portato avanti con vari ritmi da giunte d’ogni colore (gli unici rappresentanti a mantenere il punto sono stati quelli dell’IdV), ha ricevuto il definitivo impulso dopo il dicembre 2011, da quando cioè il nuovo sindaco del PdL, appoggiato dall’ex-ministro Mara Carfagna, ha varato la lottizzazione del Comprensorio di Ponte Lucano (120mila metri cubi totali, a scopo prevalentemente abitativo), senza chiedere pareri a nessuno, né alla Regione né al Ministero, e in barba al Piano Territoriale Paesistico della Regione Lazio che aveva vincolato la zona come “paesaggio naturale”, giudicandola pertanto inedificabile.
Piccolo dettaglio: il gruppo incaricato dell’edificazione è l’Impreme SPA di Massimo Mezzaroma, cugino di Marco, marito della sullodata Carfagna: questa ghiotta lottizzazione, dal pittoresco nome di “Residentia Tibur“, è per Mezzaroma l’occasione di varare anche un progetto collaterale di mappatura tridimensionale della Villa di Adriano, in collaborazione con l’Università di Tor Vergata e la Soprintendenza stessa. Ma soprattutto è l’occasione per coinvolgere in quest’operazione speculativa architetti come Paolo Portoghesi e l’ottuagenario Arata Isozaki, arruolati a gran voce nello spot promozionale. A nulla è valso il ricorso al TAR di WWF, Italia Nostra e Legambiente contro la delibera del consiglio comunale: la lottizzazione, pare, si farà senz’altro, e avrà anche il sigillo degli atenei e delle archistar.
«Non volevo turbare la sua aspettativa che Tivoli superasse tutto ciò che aveva visto su questa terra, e che un pomeriggio a Tivoli, per esempio, rappresentasse la felicità al quadrato»
(M. Frisch, Homo Faber)
b. D’altra parte c’è la questione più strettamente legata allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della città di Roma, dove – com’è noto – non è mai stato avviato un serio piano di raccolta differenziata e di ciclo virtuoso (siamo al 25%, che dovrebbe giungere al 65% nel 2014, non si sa in virtù di quale miracolo, visto che Comune, Provincia e Regione faticano anche solo ad accordarsi sul Piano proposto dal Ministro, e il giro di danaro in discariche e inceneritori rimane molto più redditizio per le imprese coinvolte rispetto al recupero su cui tanto, e con piena ragione, insiste Clini). Dunque il rebus della collocazione dei rifiuti ha suscitato da anni un’infinita serie di proposte, di proteste più o meno campanilistiche, di delibere impugnate, di comitati spontanei spesso tacciati di quadrare egoisticamente nell’antipatico acronimo NIMBY. Nel caso di Malagrotta, la discarica più grande d’Europa e forse una tra le più inquinanti (una perizia in proposito è stata affidata al Politecnico di Torino), l’urgenza è indubbia: una soluzione va messa in opera entro l’estate (cioè: va trovata subito, ché comunque sono necessari 5-6 mesi per l’avvio a regime) per evitare che le strade di Roma si riempiano di monnezza come avvenne a Napoli qualche anno fa, e anche per ottemperare a una procedura d’infrazione dell’Unione Europea, che non tollera vengano ammassati rifiuti indifferenziati non trattati.
I siti proposti hanno tutti qualche magagna: Pizzo del Prete (Fiumicino) non ha le vie d’accesso giuste, Monti dell’Ortaccio e Monte Carnevale sono troppo vicini a Malagrotta, Allumiere richiederebbe una lunga bonifica del sito militare, Pian dell’Olmo imporrebbe una complessa impermeabilizzazione, Quadro Alto a Riano e Corcolle a Tivoli sono geologicamente vulnerabili, e hanno un vincolo ambientale e (almeno nel secondo caso) storico-paesaggistico. Ma i vincoli, ha spiegato per mesi il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro (nonché dal 6 settembre 2011 commissario straordinario per i rifiuti), forte anche di un parere dell’Avvocatura dello Stato e del sostegno della Regione, possono essere superati, e i pareri contrari della Provincia, dell’Autorità di bacino e del Ministero dei Beni culturali non hanno alcun peso: anzi, a suo avviso la cava di Corcolle sorgerebbe a 2km dal sito archeologico, non interferirebbe con il bacino dell’Aniene, conterrebbe (testuale) “rifiuto inodore”, e sarebbe più capiente e sicura delle altre: in altre parole, una soluzione ideale.
Tanto è vero che a Riano e Corcolle mesi fa erano cominciati i rilievi e i primi lavori, fino all’intervento del ministro Clini, che – sensibilizzato dalle mobilitazioni nazionali e internazionali – ha imposto un ripensamento, senza tuttavia persuadere il commissario Pecoraro, il quale ancora il 18 aprile scorso in un’audizione al Senato ha insistito su Riano e Corcolle, incurante dell’indagine della Procura di Roma sulle irrituali procedure di selezione di tali siti. Invece Clini ha ribadito l’inadeguatezza geologica dei siti (vi è un serio pericolo di contaminazione della falda), e per parte sua ha puntato tutto su Monte Carnevale, ma si è scontrato con il diniego delle istituzioni (Comune, Provincia, Regione, a un certo punto anche il Ministero della Difesa preoccupato per la vicinanza del centro d’intelligence delle Forze Armate) e con quello dei cittadini della Valle Galeria, già gravati da inquinamenti d’ogni natura; seconda scelta del ministro è Pizzo del Prete, dove però pure sussistono forti resistenze da parte dei comitati locali e della Regione.
Insomma, tra i governanti si assiste a una bagarre di tutti contro tutti, che disorienta i cittadini e li spaventa: il nulla di fatto dell’8 maggio, nel riproporre la frattura insanabile tra il prefetto e il ministro, lascia presagire il peggio per Corcolle. Ma i cittadini s’inquietano anche per via di una serie di circostanze concomitanti poco limpide: Pecoraro, nominato commissario (all’indomani dell’apertura della procedura d’infrazione UE) da parte di un governo particolarmente propenso a questo tipo di soluzioni (si pensi a Bertolaso), era anche lui un frequentatore assiduo di Luigi Bisignani, protagonista delle vicende P2, P3, P4 e di tutte le P che l’angelo della storia ha voluto imporre sulla fronte di questo sventurato Paese.
Inoltre, non pare affatto trasparente (è in corso un’inchiesta della Procura di Roma) la procedura tramite la quale il nome di Corcolle è finito nella lista dei siti “papabili” stilata dalla Regione: in una prima versione “fantasma” del documento si parlava di Allumiere, mentre in una seconda versione Allumiere veniva sostituita appunto da Corcolle. Infine, non è chiaro il ruolo che in questa vicenda gioca il ricco e potente gestore della discarica di Malagrotta, Manlio Cerroni, il quale più volte è intervenuto a dispensare consigli e a offrire il proprio know-how: si può ricordare, en passant, che Malagrotta è grande 160 ettari, dunque assai più ampia dell’area oggi nota di Villa Adriana. Ogni età lascia ai posteri ciò che può.
«Ogni pietra rappresentava il singolare conglomerato d’una volontà, d’una memoria, a volte d’una sfida. Ogni edificio sorgeva sulla pianta d’un sogno»
(M. Yourcenar, Memorie di Adriano, «Tellus stabilita»)
Ma prima di lasciare Tivoli, ancora con la spada di Damocle di come andrà veramente a finire, dobbiamo rispondere all’interrogativo, al vero «trou de mystère» (come direbbe Le Corbusier guardando il Serapeo in fondo al Canopo di Villa Adriana) di questa storia: chi ha avuto l’idea di Corcolle come discarica? È stato, per sua esplicita ammissione, l’imprenditore Claudio Botticelli, padre dei due giovanissimi titolari della ditta “Ecologia Corcolle”, nata nel luglio 2011, mesi prima dell’individuazione del sito da parte della Regione. Botticelli ha un passato notevole: è stato condannato e affidato ai servizi sociali nel 2000, poi nel 2007 denunciato per reati ambientali ad Aprilia, inoltre coinvolto in una torbida vicenda di assegnazione di cave a Fondi (il comune laziale poi sciolto per mafia, dove la famiglia ebbe parte in un accordo per l’esportazione dei rifiuti in Liberia), e più di recente indagato per attività illecite in una ex cava di basalto a Lanuvio. Botticelli ha raccontato che, dopo aver acquisito il sito della cava dal costruttore Salini, l’avrebbe egli stesso suggerito a un funzionario della Regione, qualche tempo prima che il prefetto Pecoraro, novello commissario, miracolosamente lo scegliesse come soluzione ai problemi di Roma. Le idee migliori, non c’è che dire, vengono sempre alle persone migliori.
Viene da chiedersi se Botticelli, Pecoraro, o gli altri fautori di questo infernale progetto abbiano voluto consapevolmente inverare l’ultima frase – tuttora inevasa sul piano dell’identificazione archeologica – dell’unica descrizione antica di Villa Adriana, che si legge sul finire della Vita di Adriano attribuita a Elio Sparziano, scrittore dell’Historia Augusta (26.5):
«Adriano costruì la villa tiburtina in modo meraviglioso, e al suo interno assegnò i nomi dei più rinomati luoghi delle province, come Liceo, Accademia, Pritaneo, Canopo, Pecile, Tempe. E, nell’intento di non dimenticare nulla, volle che fossero imitati persino gli Inferi».
3. Venezia. Non più tardi di giovedì 3 maggio il console francese a Venezia, Gérard-Julien Salvy, ha risvegliato il composto uditorio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti pronunciando un durissimo j’accuse contro lo stato di degrado in cui versa la città, indicando in un turismo incontrollato, nel malfunzionamento dei rapporti con i privati e nell’incuria delle amministrazioni alcuni dei mali più gravi e urgenti. Le reazioni stizzite o addirittura furibonde del sindaco Orsoni e soprattutto dell’ex sindaco Cacciari hanno confermato la profondità del problema: non si capisce come possano sorprendersi e sdegnarsi uomini politici che, accanto ad alcuni interventi senz’altro efficaci, negli ultimi anni hanno tuttavia permesso (anzi: hanno varato) lo scempio sistematico del Lido, l’impianto dello sciagurato cantiere del MOSE, la svendita ai privati (da Prada a Benetton) di palazzi importanti senza alcun ritorno per la cittadinanza, la copertura permanente di monumenti in restauro tramite enormi e sguaiati cartelloni pubblicitari (notevole quello fresco fresco sul Palazzo della Zecca), e da ultimo l’imminente, scellerata cementificazione del quadrante di Tessera nell’immediata terraferma (un progetto che ricorda il “Nathan” di Tivoli, ma nella sua versione originaria e più violenta).
(Cosa resta del Lido di Venezia)
Il discorso su Venezia sarebbe troppo lungo: in parte ne ho già trattato, di quasi tutto si occupa con infaticabile solerzia Italia Nostra, e su altri aspetti bisognerà tornare suo loco. Qui vorrei concentrarmi su un solo fenomeno eclatante, che ha ricevuto un’inattesa eco mediatica qualche mese fa, per poi tornare, come accade, nell’ombra: le grandi navi. Quando la Costa Concordia s’incagliò dinanzi all’isola del Giglio, diversi intellettuali – anzitutto Salvatore Settis dalle colonne di “Repubblica”, ma anche, con diverso piglio, Tommaso Cacciari a Servizio pubblico – colsero l’occasione per lanciare un allarme in merito al continuo transito di enormi grattacieli galleggianti in Venezia, dalla Stazione marittima giù per il Canale della Giudecca e poi dinanzi a San Marco e San Giorgio. Mastodonti alti 60 metri (quando l’altezza media dei palazzi in città non supera i 15), e latori di un’ideologia turistica “mordi e fuggi” che non solo non porta vera ricchezza al “bene” visitato, ma anzitutto lo deprime a mero pretesto da cartolina.
«Ero a Venezia, sul Ponte dei Sospiri, / un palazzo da un lato e una prigione dall’altra…»
(G. G. Byron, Don Juan)
Vorrei che fossero chiari due punti, per evitare che i lettori non veneziani liquidino il problema con un’alzata di spalle:
a) non si tratta di un fenomeno sporadico, soprattuto dopo gli esponenziali incrementi registrati a partire dal 2010 (oggi Venezia è il primo porto passeggeri del Mediterraneo insieme a Barcellona): secondo calcoli basati sul calendario del 2012, le 89 navi (85 da crociera e 4 navi traghetto) che quest’anno transiteranno per il porto di Venezia, attraverseranno la città in tutto 1638 volte. Di queste navi circa la metà sono sotto le 40mila tonnellate (quasi tutte attorno alle 30mila), mentre ben 42 superano questa soglia (con punte di 114mila, come la Costa Favolosa, o di 140mila, come la MSC Divina);
b) non si tratta solo di una questione estetica, per quanto angoscianti risultino le temporanee eclissi di sole indotte da questi veri e propri grattacieli al loro passaggio; il punto cruciale è che queste navi inquinano e danneggiano. Danneggiano, perché generano un moto ondoso alla lunga esiziale per la tenuta dei masegni, ossia delle pietre di cui son fatte le rive delle isole di cui si compone Venezia: su questo tema mancano rilievi adeguati, ma campagne fotografiche mirate hanno ben mostrato la piega degli eventi, onde le tranquillizzanti conclusioni di uno studio ISMAR-CNR del 2010 paiono quanto meno ottimistiche (se al passaggio delle navi le sole vibrazioni fanno tremare i vetri e i lampadari nelle case, che cosa capiterà sott’acqua?). Le navi, poi, inquinano quando fanno manovra, perché smuovono con le eliche fondali ricchi di veleni industriali o da inceneritore, ma anche quando restano per molte ore alla fonda con i motori accesi, perché bruciano carburanti nocivi e ogni sorta di rifiuti, ammorbando i residenti con l’alto volume dei loro altoparlanti e soprattutto con i fumi micidiali dei loro comignoli – una grande nave produce tanti scarichi quanti ne emettono 12000 automobili (non esattamente balsami, per quanti miglioramenti dei combustibili si possano escogitare: biossido d’azoto, biossido di zolfo e polveri sottili). Si dà il caso che i dati sui tumori ai polmoni a Venezia siano tra i più alti d’Italia: dipenderà dal caso? dalle industrie di Porto Marghera? dal traffico di Mestre? o non piuttosto, come suggerisce uno studio dell’ARPAV del 2007 (quando il traffico era molto inferiore all’attuale), proprio dal proliferare delle grandi navi? Nessuna autorità sembra occuparsene, mancano financo adeguate centraline di rilevazione della qualità dell’aria, e intanto le aule frequentate ogni giorno da migliaia di studenti di Ca’ Foscari e IUAV si trovano a pochi metri dalle banchine così salubremente popolate (nella bella stagione, dalle finestre del Polo didattico dove faccio lezione contemplo regolarmente fiancate alte decine di metri).
(Le foto della Costa Fascinosa a Venezia)
Il tutto senza considerare il rischio concreto di gravi perdite di carburante o di incidenti, che avrebbero conseguenze inimmaginabili non solo sull’ecosistema, ma sulla vita stessa della città di Venezia. Non più tardi del 6 maggio una nave ha rischiato di andare alla deriva in Stazione Marittima, ma per fortuna è stata bloccata in tempo. Quando invece nel maggio 2004 una nave passeggeri tedesca s’incagliò dinanzi alla Riva degli Schiavoni l’allora sindaco Paolo Costa insorse contro il passaggio delle navi da crociera tra San Marco e San Giorgio; ma ora il medesimo Costa, fresco reduce dalla preclara battaglia per la realizzazione della base Dal Molin a Vicenza (dove, tra allagamenti, inquinamenti e compromissioni della falda acquifera, la città ha iniziato a pagare dazio alla Wille zur Macht americana), è giunto a presiedere l’Autorità Portuale, e ha evidentemente mutato avviso.
«Né qui giaccion paludi / che dall’impuro letto / mandino a i capi ignudi / nuvol di morbi infetto»
(G. Parini, La salubrità dell’aria)
Una volta di più, bisogna essere equi con il governo in carica: il ministro Clini, sull’onda del disastro del Giglio, delle polemiche di stampa, e forse di una rilettura del rapporto del Magistrato alle acque dell’anno 2008, ha intrapreso tempestivamente un’azione in sé lodevole, ovvero con il decreto del 2 marzo 2012 (art. 2 comma b) ha vietato «il transito nel Canale di San Marco e nel Canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto di merci e passeggeri superiori a 40000 tonnellate di stazza lorda». Un notevole passo avanti, a prima vista: minore entusiasmo sottentra quando si apprende che il tetto delle 40000 tonnellate vale solo per Venezia, mentre è di 500 (un ottantesimo) per gli altri parchi naturali, e che contestualmente per la sola Venezia non vale il limite di sicurezza di 2 miglia marine. Ma l’inghippo che rende del tutto inefficace, anzi al limite del beffardo, un simile provvedimento, è che l’applicazione del divieto è stata rinviata sine die, ovvero al giorno in cui vi sarà «disponibilità di vie di navigazione praticabili alternative a quelle vietate». Quali sarebbero, di grazia, queste vie?
Di certo, nulla di realizzabile a breve. L’ex sindaco Paolo Costa (nessuna parentela, per una volta, con la compagnia di armatori), tornato come detto fervente fautore delle Grandi navi in Laguna, ha con l’occasione rispolverato un suo vecchio progetto, ovvero lo scavo di un nuovo canale, detto “Contorta – Sant’Angelo” dai punti che dovrebbe connettere: un canale da abbinare a una serie di interventi forse temporanei forse definitivi (un nuovo porto a Pellestrina sopra i cantieri del MOSE, che stravolgerebbe vieppiù tutto il Lido; un porto d’altura per le navi portacontainer in mare aperto, fuori dalla Laguna; ma allora, molto semplicemente, perché non un porto in mare aperto anche per le grandi navi da crociera? e come trasportare i passeggeri dai porti alla città?). Nella generale vaghezza delle idee fin qui presentate, rimane saldo soltanto il disegno Costa di scavare in Laguna un nuovo canale, per far fare un giro diverso alle navi che arrivano in porto. Questa soluzione ovviamente non risolverebbe i gravi problemi d’inquinamento della Laguna, né tanto meno i problemi connessi allo stazionamento delle navi in porto (a pochi metri dalle Zattere, per intenderci; quando non, per mancanza di banchine, direttamente in Riva 7 Martiri), anzi aggraverebbe sensibilmente i guai idrogeologici già serissimi che affliggono l’intero ecosistema. Il progetto Costa – autorevole in quanto espresso dall’autorità portuale – non mette peraltro in discussione (anzi, promuove) l’aumento delle navi da crociera da destinare alla stazione marittima, che tra pochi mesi potranno attraccare in alcune banchine attualmente adibite ai traghetti.
«Dans Venise la rouge / pas un bateau qui bouge»
(A. de Musset, Premières poésies)
A fronte di questo panorama, si registra la forte e consapevole attività del Comitato No Grandi Navi – Laguna Bene Comune (promotore già nel 2008 del fortunato documentario Venezia crepa), che riunisce l’associazione AmbienteVenezia (utilissimi i “Materiali d’Informazione” del loro Osservatorio delle Trasformazioni Territoriali e Sociali), ed altre benemerite associazioni, tra cui un ruolo importante lo gioca di nuovo Italia Nostra. Il leader del Comitato è Silvio Testa, coraggioso autore di un succinto pamphlet che rimane una bibbia su questo tema (E le chiamano navi, Venezia, Corte del Fontego 2011). Questi cittadini, con pochi mezzi e con personale sacrificio di tempo e denaro, portano avanti a mani nude le battaglie per la salvaguardia della Laguna, sulla scia delle lotte che negli anni ’60 impedirono la sua destinazione interamente industriale (l’esito odierno di Porto Marghera fa capire l’entità del pericolo scampato). I comitati si richiamano all’art. 1 della legge speciale per Venezia 171/1973, dove si pone come obiettivo prioritario «l’equilibrio idraulico della laguna», e all’art. 3 dell’altra legge speciale 798/1984 che proclama «l’arresto e l’inversione del processo di degrado del bacino lagunare». Leggi rimaste sostanzialmente lettera morta, anzi palesemente contraddette ex ante da iniziative come lo scavo del Canale dei Petroli (Malamocco – Marghera, realizzato tra il 1961 e il 1969 a beneficio del polo petrolchimico), che anche secondo il geologo Luigi d’Alpaos ha contribuito in maniera decisiva alla degenerazione della Laguna (si veda anche l’altro aureo libretto di E. Salzano, La laguna di Venezia. Il governo di un sistema complesso, Venezia 2011).
Non ci si aspetti che le istituzioni trattino bene questi comitati: privi di appoggio all’interno delle forze politiche (il PD, dall’epoca di Cacciari, ha sempre attivamente partecipato alle operazioni), con scarsa udienza nelle università (anche quelle che si riempiono la bocca della famosa “sostenibilità”), essi organizzano manifestazioni autogestite, sit-in, pranzi di autofinanziamento (uno il 12 maggio a Sacca Fisola), petizioni come questa, in certi casi anche proteste eclatanti come il simbolico assalto in barca a una grande nave in partenza; ma la risposta del Comune, delle autorità portuali è di silenzio o peggio di intimidazione (qualche settimana fa i manifestanti di un pacifico corteo acqueo sono stati perfino identificati e denunciati). Di più, il Comune affida proprio a Costa Crociere un nuovo servizio di hostess in Piazza San Marco per sensibilizzare turisti e cittadini alla conservazione dei monumenti e al mantenimento del decoro (!). Analogo disinteresse spiace constatare – e con questo torniamo al punto di partenza – nella Soprintendenza ai Beni culturali, la quale evidentemente non ritiene l’affare di propria pertinenza, nonostante l’oggettivo coinvolgimento fisico di Palazzo Ducale, di San Giorgio, e di centinaia di altri beni tutelati; in verità, quando nel 2004, in séguito all’incidente suddetto, il soprintendente Giorgio Rossini aveva osato esortare all’estromissione delle grandi navi da Venezia, per tutta risposta fu fatto oggetto di un linciaggio perfino da parte dell’UDC (lo si accusò di “procurato allarme”).
Del resto, va riconosciuto che il problema non è così semplice come sembra: senza dubbio la priorità assoluta è l’estromissione immediata delle grandi navi dalla Laguna, per le ragioni fin qui accennate (il libro di Testa ne enumera altre, con dovizia di dati), e anzitutto perché non ha senso alcuno continuare pervicacemente a esporre un patrimonio come Venezia all’alea di una roulette potenzialmente devastante. Rimane però che le grandi navi in città comportano profitti per alcuni (soprattutto per alcune aziende: si veda il neonato comitato “Sì grandi navi”), e un certo indotto occupazionale, che molti non vorrebbero regalare tout court a Trieste (una delle opzioni di cui si parla è proprio il parziale dirottamento sul capoluogo giuliano di parte del traffico crocieristico). D’altra parte la potente Fincantieri di Marghera, che costruisce le medesime grandi navi della Costa (ormai sempre meno, in verità, stante la grossa crisi) a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla Stazione marittima, come potrebbe trovarsi a operare in una Laguna da cui le sue stesse produzioni fossero bandite?
Acque alte / mascella / acque basse / mandibola / in moto alterno / in moto conscio e solido / Venezia nuda / vecchia torva di cicatrici
(A. Zanzotto, Conglomerati)
In realtà quello che manca, come diceva il console francese l’altro giorno, è un disegno generale di sviluppo e di tutela di Venezia e della Laguna, la quale, anche al di là delle grandi navi rimane minacciata da ogni parte: da confusi e megalomani programmi di una metropolitana sub-lagunare, dalle conseguenze ancora incerte degli enormi cantieri del MOSE, dal pericolo di una linea TAV collocata nella gronda in terraferma, dal puzzle tuttora insoluto della riconversione di Porto Marghera, dalla citata previsione d’incremento del traffico di navi alla Stazione Marittima. Di certo, l’abuso delle grandi navi da crociera non porta ricchezza “diffusa” alla città (i turisti dormono, mangiano e vivono per lo più a bordo), e pone più in generale un problema di fondo: se vi sia un limite al flusso turistico in Venezia prima che la città diventi un mero parco tematico vuoto di abitanti in pasto (il conto è di P. Lanapoppi) a 30 milioni di turisti l’anno. Se un decimo di questi ultimi proviene dalle grandi navi (senza contare gli equipaggi), e se in certi giorni sbarcano in città (in una città di 60mila residenti) anche 35mila crocieristi, siamo dinanzi a un fenomeno che attiene alla hybris, alla dismisura, la medesima che ha indotto mano umana a creare e mettere in mare luccicanti e reboanti (e fragili) grattacieli alti decine di metri.
Come fece, alla fine del III secolo avanti Cristo, il sovrano d’Egitto Tolomeo IV. Quest’ultimo, racconta Ateneo (Deipnosofisti 204d-206b), costruì per le sue parate sul Nilo una nave-palazzo lunga mezzo stadio e alta 40 cubiti, dalla chiglia poco profonda e dalla forma inusitata: al piano terra, circondate da portici, si trovavano le sale da banchetto, le camere da letto e altre sale abitabili, tra cui ampie aule colonnate, un oikos per gli uomini e uno per le donne, con letti da simposio, rilievi in avorio, porte di cedro, colonne corinzie in cipresso dai capitelli dorati; al primo piano si ergeva poi un tempio a tholos dedicato ad Afrodite, con una statua in marmo della dea, e una lussuosa sala da pranzo sorretta da colonne in pietra indiana; poco più in là, una sala dionisiaca, un simposio a forma di tenda foderato di tappeti purpurei, e poi ancora un appartamento egizio con capitelli a fior di loto e mattonelle d’alabastro.
Non sembra l’interno di una grande nave di oggi, accessibile per pochi centinaia di euro a milioni di turisti? Promuovendo e centuplicando questo tipo di turismo a discapito di ogni senso di tutela dell’ambiente in cui si muove, e financo della salute, ci illudiamo forse di essere diventati tutti faraoni, nel momento stesso in cui senza avvedercene gettiamo a mare il nostro patrimonio più prezioso.