Le condanne del processo Eternit
I dirigenti dell'azienda, Stephan Schmidheiny e Jean Louis de Cartier, sono stati condannati a 16 anni di reclusione
Aggiornamento delle 13.23
I due dirigenti imputati del processo Eternit, Stephan Schmidheiny e Jean Louis de Cartier, sono stati condannati in primo grado a 16 anni di reclusione, l’accusa aveva chiesto 20 anni. I giudici hanno condannato l’azienda al risarcimento di 100.000 euro per Cgil, Usr Cisl Piemonte, Usr Cisl Torino, Feneal, Uil Reg, Uil Prov Alessandria, Ass. Esposti Amianto, 70000 euro per Wwf e Medicina Democratica, quattro milioni per il Comune di Cavagnolo, oltre a una provvisionale all’Inail di 15 milioni di euro.”
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Eternit è una ditta che produce uno specifico tipo di fibrocemento, usato in edilizia soprattutto per vasche, tegole, tettoie e a lungo costruito facendo uso di amianto, sostanza la cui polvere ha effetti cancerogeni. All’interno e all’esterno di molti stabilimenti Eternit in Italia – da Casale Monferrato (Alessandria) a Cavagnolo (Torino), da Broni (Pavia) a Bari – si sono verificati negli anni migliaia di casi di contaminazione, che vanno avanti tutt’ora nonostante la produzione di lastre in amianto sia stata sospesa al più tardi negli anni Novanta: la malattia ha un periodo di incubazione di circa trent’anni. L’azienda Eternit è fallita, il comune di Casale Monferrato sta bonificando l’area che occupava lo stabilimento. Oggi arriva a sentenza il processo di primo grado istruito a Torino nei confronti di due persone, Stephan Schmidheiny e Jean Louis de Cartier, considerati dall’accusa responsabili delle molte negligenze della società nell’informare e proteggere adeguatamente i propri dipendenti e gli abitanti delle zone circostanti alle fabbriche. L’accusa chiede per entrambi la condanna a vent’anni di detenzione. La sentenza dovrebbe essere annunciata poco dopo le 13.
I tre giudici di Stephan Schmidheiny e di Jean Louis de Cartier si sono presi quasi tre mesi di tempo per riflettere e definire gli orientamenti della sentenza Eternit che verrà letta oggi dal presidente Giuseppe Casalbore, forse per ore, considerati i numeri «impossibili» di questo processo trasnazionale. Prima ci sarà ancora la breve replica di un difensore, l’avvocato Cesare Zaccone, decisa per consentire più che altro al collegio giudicante di ritirarsi in «pre-camera di consiglio» dal 21 novembre scorso e prepararsi a giudicare l’erede svizzero della multinazionale dell’amianto, ripresentatosi come filantropo nella sua seconda vita, e un anziano barone belga, accomunati nella stessa richiesta di pena: 20 anni di carcere.
I pm torinesi Raffaele Guariniello, Sara Panelli e Gianfranco Colace li hanno accusati nelle 65 udienze del processo di disastro doloso e omissioni altrettanto volontarie di norme antinfortunistiche per essere stati, l’uno dopo l’altro a partire dagli anni ‘60, al vertice della multinazionale da cui dipendevano le fabbriche italiane dell’Eternit: a Casale Monferrato c’era la più vecchia, a Bagnoli (Napoli) quella che ha avuto più lavoro (prima del fallimento per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia).
Il processo torinese ha ricompreso le politiche aziendali e i morti degli stabilimenti minori di Rubiera (Reggio Emilia), l’ultimo ad avere chiuso, e quello di Cavagnolo, sulla sponda sinistra del Po e in provincia di Torino. La fabbrica Eternit che ospitava questo paesone era la più piccola della multinazionale in Italia, ma il fatto di rientrare nella competenza territoriale della procura torinese l’ha resa giudiziariamente strategica. Se lo stabilimento Saca non fosse mai esistito, infatti, questo processo non si sarebbe mai celebrato.
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nella foto: Raffaele Guariniello, pubblico ministero di Torino (LaPresse)