Quelli che se ne vanno
Al contrario di quel che sostiene il ministro Cancellieri, negli ultimi dieci anni è ricominciata una gigantesca emigrazione dal Sud: lo dicono i dati
di Giuseppe Provenzano
Tra tutte le freddure e le dichiarazioni “ebbre” dei membri del governo sui giovani e il lavoro, questa del ministro Cancellieri sul “posto fisso vicino a mammà” lascia davvero stupefatti. Va bene che s’occupa d’altro (fino a un certo punto…), ma troppo si è allontanata dalla realtà. Nel caso particolare di Cancellieri, infatti, la distanza delle parole del governo dal modo offeso in cui vive la maggioranza della popolazione giovanile si può facilmente misurare in numeri: quelli dell’emigrazione giovanile, su cui da anni lavora la SVIMEZ, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, finché i tagli al finanziamento pubblico non le faranno chiudere bottega, e su cui altrove si è riflettuto.
Le statistiche sono arrivate molto dopo a cogliere un fenomeno che nel Mezzogiorno, sul finire degli anni Novanta, tornava a essere storia comune, nell’indifferenza dell’opinione pubblica che conta. Richiamare i numeri può essere utile, non solo perché sono stati un po’ stravolti nella polemica pubblica di questi giorni, ma perché ci aiutano, più delle storie di molti di noi giovani meridionali, a parlarne fuori da una retorica d’emigrazione spesso fuori luogo e a non eccitare ulteriormente le nonne e le mamme del Sud i cui figli sono ripartiti in massa.
I numeri delle “nuove” emigrazioni
L’arretramento economico e sociale del Sud, in un complicato viluppo di causa ed effetto, si avvita nella spirale demografica negativa, caratterizzata dal mancato afflusso migratorio (nonostante le tragedie mediterranee e l’orrore di Lampedusa), dal brusco calo del tasso di natalità, e dai flussi migratori verso il Centro-Nord e verso l’estero. Le previsioni più recenti della SVIMEZ dicono che nei prossimi vent’anni l’area perderà quasi un giovane su quattro, e se si estende ancora l’orizzonte, prima della metà del secolo, gli under 30 nelle regioni meridionali si ridurranno di due milioni. Così il Sud diventerà sempre più spopolato (come già accade a molti paesi dell’entroterra siciliano o calabrese), povero e anziano, socialmente ed economicamente più dipendente dal Nord.
Negli ultimi dieci anni, senza che il ministro-prefetto se ne accorgesse, è ripreso l’esodo dal Sud.
L’emigrazione ha riguardato una massa enorme di persone che hanno trasferito la residenza o che, mantenendola nelle regioni di origine, svolgono attività lavorative altrove, e che solo gli eufemismi statistici possono definire “pendolari di lungo raggio”: sono i “nuovi” emigranti, solo più precari degli altri. Ad andarsene sono stati soprattutto i giovani più dinamici e qualificati in cerca di quelle opportunità di formazione e professionali che al Sud scarseggiano o che generalmente non sono all’altezza delle competenze e delle legittime ambizioni o aspettative maturate nei percorsi di istruzione.
Per la SVIMEZ, dal 2000 al 2010, si sono trasferiti dal Mezzogiorno circa 1.350.000 persone: il saldo negativo è di 630 mila. Nel saldo, la percentuale di popolazione con un’età compresa tra i 15-34 anni è intorno al 70 per cento: si stima dunque che in dieci anni circa 450 mila giovani hanno definitivamente abbandonato il Sud. Nel solo 2010 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi) i trasferimenti di residenza sono stati 114 mila (8 mila in meno rispetto al 2008), mentre lo stock di “emigranti precari” (pendolari di lungo raggio) è sceso a 134 mila unità (nel 2008 era 173 mila).
Il calo recente non è la tendenza “virtuosa” di uno sviluppo che ha aperto nuove opportunità, ma solo un effetto della congiuntura negativa. Il peggior andamento dell’occupazione giovanile al Centro-Nord sembra restringere la “valvola di sfogo” della fuoriuscita migratoria e allargare per il resto del Paese le maglie dell’emigrazione verso l’estero. Nel 2010 sono stati circa 40 mila i trasferimenti di residenza verso l’estero, e dal Sud, per motivi di lavoro, “pendolano” dalla Germania o dall’Inghilterra, oltre 13 mila persone, quasi tutti giovani.
L’annosa questione dell’emigrazione – che nei primi anni Sessanta, in un quadro di espansione demografica, toccò il suo massimo con un esodo annuale di trecento mila persone (più o meno come in un’istantanea del 2008, se si leggono i dati) – su sui si misuravano i classici del meridionalismo, un tempo meritava non solo l’attenzione dell’intera cultura nazionale (Rocco e i suoi fratelli è del 1960) e della politica, si presume a partire proprio dai ministri dell’Interno.
Perché bisogna parlare del brain drain
Eppure oggi, nonostante la crisi dell’intero Paese, l’emigrazione persiste in tutta la sua rilevanza. Non solo, ma l’effetto più significativo è la ridefinizione della struttura interna alla “nuova” emigrazione, che diventa assai più “selettiva”, con il costante aumento relativo della componente più qualificata: tra i “pendolari”, l’incidenza dei laureati è aumentata rispetto al 2008 (raggiungendo, in valore assoluto, le oltre 40 mila unità); a essi si aggiungono circa altri 18 mila laureati meridionali che ogni anno spostano la residenza al Centro-Nord (il 93 per cento) o all’estero (7 per cento). Nel 2010, se volessimo dare un’istantanea, si sono spostati per motivi di lavoro circa 60 mila laureati: l’esercito dei “fuoriusciti”.
Sono dati particolarmente preoccupanti non solo, a livello politico, per la sempre più consolidata perdita di risorse umane preziose per le prospettive del Sud, ma anche per il fatto che a fronte di una crescita della “qualità” dell’emigrazione si riduce significativamente la “qualità” delle occupazioni svolte dagli emigrati stessi: gli occupati con alta qualificazione sono infatti calati, nel solo 2009, di circa l’8 per cento.
Il pretesto della dichiarazione del ministro può essere dunque utile a mettere a fuoco un problema che, evidentemente, non riesce a penetrare nella coscienza delle classi dirigenti. Liquidarlo come una conseguenza della modernità, significa ammettere che la modernità riguarderà solo altri: da noi non c’è traccia di brain exchange (flussi multidirezionali di mobilità verso le aree in ragione delle specializzazioni), e il brain drain è un flusso unidirezionale di perdita di capitale umano, avvitato in una spirale di impoverimento economico e culturale del Mezzogiorno e del Paese.
Per smentire Cancellieri
Un chiarimento per i lettori: non abbiamo certo affrontato la questione per smentire la dichiarazione sciagurata di Cancellieri. Chiacchiera per chiacchiera da bar, tutti sanno che sarebbe già bastato e avanzato il famoso sketch di Massimo Trosi a Firenze, in Ricomincio da tre. “Ah, lei è napoletano… Emigrante?”. E lui non avrebbe voluto emigrare, avrebbe voluto solo viaggiare.
Ma non doveva essere il tempo dei “bravi a scuola”?
Con l’esordio dei professori già provammo il sollievo – una specie di catarsi – di tornare a discutere di politica dopo i baloccamenti berlusconiani e gli affari di cricca, le frasi idiote o infami e il “cattivismo sociale” professato, di quella congrega di malgoverno. Sempre più spesso, purtroppo, il governo dei professori finisce per alimentare cortocircuiti comunicativi – a cui è difficile che la stampa possa sottrarsi – per cui i problemi si dissolvono in frammenti buoni solo alle strumentalizzazioni: la giungla normativa del mercato del lavoro e il deserto del nostro welfare si riduce nella discussione sull’articolo 18, per la penalizzazione dei giovani che versano in uno stato di “inoccupazione fissa” si resuscitano cose morte come la critica di quel “posto fisso” che gli under 35 non hanno quasi mai conosciuto.
Dichiarazioni e personaggi come Michel Martone, malgrado il loro ruolo attuale e la loro brillata carriera, non meritano ulteriori commenti. Però il problema è generale, e tocca figure decisive del governo. Talvolta si ha l’impressione che sia solo un parlar male, in casi come questo invece pare proprio di poter dire che si tratti di un non sapere di che si parla. Com’è potuto accadere al governo dei tecnici ottimati? Le parole dette, specie se improvvisate davanti ai microfoni, sono sempre un po’ lontane dalla realtà effettuale. Ma quando la distanza è così eclatante allora c’è puzza di “ideologia”. Cos’è infatti l’ideologia, nel senso deteriore del concetto, se non esattamente questa coscienza fasulla delle cose? Altrimenti, sarebbe proprio curiosa questa forma di ignoranza delle élite: potrebbero giocarvi molti fattori, a cominciare da una certa chiusura censitaria – un pezzo minoritario di mondo che sembra di conoscere solo il proprio mondo (o quello dei propri figli, delle opportunità e delle occasioni più o meno meritate che hanno avuto) – che evidenzia proprio quell’immobilismo che il Governo vorrebbe combattere a reprimende. V’è forse anche maldestrezza a muoversi appena fuori del recinto, professorale o professionale, in cui si sono mossi egregiamente per decenni. È tutto questo che nelle dichiarazioni sui giovani (su come dovrebbero essere, cosa dovrebbero fare) risuona come un di più di aberrazione, l’inaccettabile paternalismo (che si perverte sempre nell’Italia familista e nepotista), peraltro irresponsabile, di un pezzo di classe dirigente (perché questo sono stati i membri di questo governo) che nella condizione dei suoi figli – cioè, dei figli degli altri – dovrebbe misurare anche un po’ i fallimenti della propria generazione. E usare maggior pudore con le parole, lasciando spazio ai fatti. Del resto il Governo, nelle stesse ore, con il ministro Barca, senza troppo clamore e proprio in questo campo (i giovani, il lavoro e il Sud), operava correttivi all’azione di coesione territoriale che vanno nella giusta direzione di un’attenzione maggiore alla creazione di opportunità di lavoro [pdf].
Un successo del Governo Monti, pure in questo passaggio storico così difficile, sarebbe proprio quello di far prevalere il tempo dei “bravi a scuola”. In troppe dichiarazioni, purtroppo, sembra prevalere il “secchione” occhiuto e incattivito del primo banco, e col dito puntato.
foto: LaPresse