Venezia Santa Lucia
Cosa sta succedendo alle tratte ferroviarie notturne, raccontato da chi le faceva andare e ora protesta al freddo davanti al Canal Grande
di Filippomaria Pontani
L’uscita dalle officine Lumière. Non c’è altro termine di paragone per descrivere il fiume di persone d’ogni età ed estrazione che ogni mattina si riversa fuori dalla stazione ferroviaria di Venezia, eretta a partire dal 1861 dopo l’abbattimento della chiesa e del convento di Santa Lucia, e poi modellata nelle forme attuali (così simili a quelle di Termini e di Santa Maria Novella) dagli architetti razionalisti Mazzoni e Vallot in età fascista. Santa Lucia è forse l’unica stazione in Italia, tra le medio-grandi, a unire diverse caratteristiche abnormi: non è una tappa di transito (chi deve cambiare lo fa per lo più a Mestre, in terraferma), non prevede uscite al di fuori di quella principale, non comunica con sottopassi, parcheggi o tunnel di metrò, e dunque obbliga tutti quanti i suoi 80mila passeggeri quotidiani a uscire a piedi dalla bassa scalinata che guarda sul piazzale, e più in là – senza alcun parapetto a occludere lo sguardo – sul Canal Grande.
Lo scenario, per chi arriva, è molto suggestivo, e non è un caso che il cartellone pubblicitario che fino a poco tempo fa copriva le impalcature di San Simeon Piccolo fosse uno dei più ambiti e cari della città. Ma oggi non è tempo di romanticismo, né di nostalgie; fa freddo, stamattina. E anche stamattina, come da un mese a questa parte, quel fiume bipartito di viaggiatori (che proustianamente può ormai scegliere il proprio côté, imboccando dunque lo scivoloso ponte di Calatrava sulla destra oppure incamminandosi a mancina verso l’erto ponte degli Scalzi, o verso Cannaregio) viene accolto da uno spettacolo insolito, che intimorisce i piccoli e impensierisce gli adulti. Dai lampioni pendono infatti dei manichini in divisa, e al centro del piazzale si leva una bassa tenda blu con a fianco un sarcofago di compensato chiaro. Non è un’installazione di Cattelan, anche se gli intenditori d’arte potrebbero pensarlo (in fondo siamo nella città di Pinault e della Biennale): gli abiti, le bandiere, gli striscioni chiariscono di cosa si tratta.
Dal 19 dicembre i 42 ferrovieri della Wasteels International Italia che gestivano il treno di notte “Stendhal” da Venezia a Parigi, sono accampati qui notte e giorno per protestare contro il loro licenziamento in tronco, o meglio (recita la lettera che hanno ricevuto – ironia della sorte – il giorno di Santa Lucia) la loro “messa in mobilità”, un provvedimento reso ancor più beffardo dalla recente scoperta che l’azienda negli anni non ha versato all’INPS i contributi atti a garantire ai lavoratori, in caso di sofferenza, almeno appunto l’assegno di mobilità. L’esito è che da un giorno all’altro (e da oltre un mese ormai) i ferrovieri sono senza lavoro, senza alcun tipo di stipendio o sussidio, e senza prospettive di sorta.
Ma perché sono stati licenziati? La risposta è complessa, ma mi aiutano a ridurla all’osso i lavoratori che incontro fuori dalla tenda: tutta gente non più giovanissima, anzi per lo più giunta a quell’età in cui l’esperienza accumulata è proporzionale alla difficoltà di “riciclarsi” in un mestiere diverso: penso a Giorgio che è venuto da Pavia 30 anni fa (ne aveva 23) per lavorare sui treni di notte in partenza dal Veneto, a Massimo che invece è di qui ma ha anche lui più di 20 anni di anzianità, a Marco che è del Tuscolano ma ha messo su casa a Portogruaro negli anni ’80, a Gian Marco che è un po’ più giovane e traduce la sua rabbia in proteste civili ma vibranti in piazza e sul web, a Salvatore che col suo caldo accento siciliano funge in certo modo da trascinatore. Persone che un singolare contrappasso espone oggi alle gelide nottate in sacco a pelo, in quella tenda blu sul Canal Grande senza alcuna forma di chauffage, dopo anni in cui si sono curati di assicurare un caldo sonno a chi inseguiva Parigi per lavoro o per diporto.
Per sommi capi: nell’ottobre scorso Trenitalia ha creato una società di nome TVT, in partnership al 50% con la francese Veolia (azienda energetica, che ha aperto un brand Veolia Transdev attivo nel ferroviario tra Auckland, Boston, Seul e Francoforte) : questa TVT ha scalzato la Wasteels (la quale pure aveva l’appalto fino a giugno 2012) dalla gestione del treno Venezia-Parigi, e ha trasformato quest’ultimo in un treno “Parigi-Venezia” dal simpatico nome di “Thello”, affidandolo alla società LSG-Sky Chef, anch’essa non specializzata nel traffico su rotaia (cura il catering per la Lufthansa, e nelle ferrovie opera solo in Svezia), la quale ha gemmato ad hoc una filiale dal nome LSG-France. Come siano state fatte queste gare (i maligni dicono: se sia stata fatta una gara tout court), non è chiaro: nelle maglie larghe del diritto europeo, le procedure seguite per l’assegnazione dei servizi di questo treno rimangono molto opache. Sta di fatto che né TVT né LSG-Sky Chef hanno minimamente pensato a riassorbire il personale precedente, come dovrebbe avvenire per legge in Italia in occasione degli avvicendamenti di società appaltatrici: non erano tenute a farlo perché né nel bando di gara né nel protocollo di assegnazione è stata inserita alcuna “clausola sociale”. LSG-Sky Chef ha invece assunto nuovo personale, giovane e ovviamente non qualificato, ma dotato di tre caratteristiche precipue: a) è quasi interamente di nazionalità francese, benché lavori su un treno il cui hardware (dai vagoni agli accessori) è tutto italiano; b) tiene il treno con 6 persone invece delle precedenti 12; c) guadagna dai 300 ai 400 euro in meno rispetto ai lavoratori italiani preesistenti. I quali infatti sono rimasti a piedi.
Questa vicenda può essere vista sotto almeno tre aspetti.
1) Anzitutto, nel quadro dello smantellamento del trasporto notturno su rotaia. I più anziani fra i lavoratori raccolti sul piazzale di Santa Lucia mi raccontano dei tempi eroici in cui il capotreno saliva in vettura togliendosi il cappello, e ai passeggeri venivano offerti i cioccolatini di benvenuto. Ma anche senza cedere ai sentimentalismi del buon tempo antico, basta calcolare le tratte internazionali soppresse o cedute da Trenitalia nel giro degli ultimi anni: prima i treni per Zurigo e Ginevra (dove ormai si arriva solo di giorno), poi il Monaco di Baviera (passato ai tedeschi), infine il Nizza, abolito solo un paio d’anni fa. Vista la generale smobilitazione anche in altre parti del Nord, l’unico treno notturno internazionale rimasto in mano agli Italiani è il Milano-Vienna. Si attende per giugno una possibile riapertura del glorioso “Palatino”, che tanti di noi hanno preso per lasciare il Tirreno una notte e svegliarsi l’indomani nella Salle Méditerranée della Gare de Lyon: ma sarà con ogni probabilità anch’esso gestito dalla TVT.
Perché abbandonare il Parigi ai Francesi? Certo non per ragioni di scarsa affluenza, giacché il treno è lì vivo, vegeto e redditizio, e anzi Veolia lo reputa un ottimo investimento. Secondo i soliti maligni, si è trattato di una semplice merce di scambio, in quanto Trenitalia avrebbe interesse a entrare in Francia con i suoi treni ad alta velocità prima di Montezemolo, la cui NTV è partecipata al 20% proprio dalle Ferrovie francesi. Anche per questo, e per le palesi manovre di Trenitalia contro NTV, i ferrovieri che mi parlano non vedono di cattivo occhio l’impresa di Montezemolo, e l’introduzione di maggiore concorrenza anche nel trasporto locale; temono tuttavia uno sviluppo “italiano” del concetto di concorrenza, e in ogni caso non se ne ripromettono nulla per sé o per il proprio destino personale.
Un’eco anche maggiore – e sicuramente un maggior peso simbolico ed economico – ha avuto sui media nazionali il contestuale smantellamento da parte di Trenitalia dei treni notturni che univano il Paese. Nella logica del divide et impera strenuamente perseguita dal capitalismo nostrano, accade che i ferrovieri asserragliati a Milano sulla torre del binario 21 (per rendersi conto basta guardare questo video e leggere il loro diario quotidiano sul Fatto), non siano pleno iure colleghi di quelli di Venezia, in quanto i primi fanno (o meglio, prima del licenziamento, facevano) capo a Servirail, un’azienda che è erede della vecchia “Compagnie des Wagons-Lits”, e alla quale pure è stato disdetto in corsa (con 6 mesi di anticipo) l’appalto per i treni da Torino a Crotone, da Milano a Palermo o a Lecce, da Venezia a Siracusa etc.: appare ormai chiaro come per Trenitalia l’esternalizzazione dei servizi notte e cuccette non sia stato che il primo passo verso la loro dismissione o cessione. Gli unici treni superstiti, il Roma-Palermo e il Bologna-Lecce, che coprono dunque appena metà delle antiche distanze, sono stati dati in appalto da Trenitalia, dopo la tipica gara al ribasso (il bando impegnava l’azienda per 55 milioni di euro, ossia la metà del bando precedente, riduceva di metà i cuccettisti, e non prevedeva la clausola sociale), a un raggruppamento temporaneo di imprese (La Tecnica ESP + Sicuritalia), che però ha dovuto rinunciare per inadeguatezza alla bisogna, venendo sostituito per ora (ma pendono ricorsi) dalla seconda classificata, di nome Angel Service, che attualmente espleta i servizi residui, dopo aver lasciato a casa buona parte del personale preesistente (le sedi di Venezia, Messina, Bari e Torino sono state semplicemente chiuse), e aver ingaggiato nuovo personale a buon mercato, e qualcuno di Servirail che si è adeguato dissociandosi dalla protesta. Chi ha seguito le trasmissioni di Servizio Pubblico sa di cosa si parla, e comunque un buon sunto dei problemi sta nell’interrogazione parlamentare di Antonio di Pietro.
Tra i risvolti di questo singolare contributo alla disunità d’Italia, giunto a coronamento delle celebrazioni per il Centocinquantenario, ve n’è uno eminentemente culturale, che ha come fulcro l’obsolescenza dell’immagine letteraria del treno nella coscienza collettiva. Nelle generazioni future si farà ancor più fatica ad ascoltare i “Treni per Reggio Calabria” di Giovanna Marini, perché sin dal titolo (per non parlare poi del contenuto) bisognerà cominciare a dare spiegazioni; lo stesso vale per le epopee dell’emigrazione interna e dei viaggi giovanili, che la letteratura e il cinema (da Rocco e i suoi fratelli a La meglio gioventù) hanno eternato come parte saliente dell’italianità.
Ma al di fuori di queste intellettualistiche nostalgie (che tali, a ben vedere, non sono), c’è un punto che tutti i dimostranti sottolineano a una voce: la falsità dell’assunto secondo il quale il trasporto notturno sarebbe strutturalmente in perdita. Certo, non tutte le tratte sono uguali, e c’è la concorrenza degli aerei low-cost; ma sui treni di notte una clientela affezionata e costante non mancava mai, anzi nell’ultimo anno era in aumento; l’esperienza mia annosa, di passeggero, non può che confermare quella loro, di addetti: saremo dunque tutti in errore dinanzi al trionfo delle statistiche, e con noi saranno in errore anche quei Paesi nei quali il servizio notturno viene regolarmente mantenuto, da Barcellona a Madrid, da Lilla a Tolosa, da Monaco ad Amburgo? Non si poteva magari – suggeriscono i ferrovieri – rimodulare la frequenza concentrando certe tratte nel weekend o nel periodo estivo, e consentire in tal modo comunque un riassorbimento, magari a tempo parziale, della gran parte dei lavoratori? No: è stato scelto il taglio draconiano, senza mezze misure, in spregio di tutto e di tutti: esiste solo la TAV.
2) La vicenda in questione è un esperimento di grande interesse sul piano del diritto del lavoro. Trenitalia – al contrario di quanto è avvenuto oltralpe in occasione di simili ristrutturazioni o cessioni negli anni passati, con l’intervento di SNCF in Francia o di SBB in Svizzera – vanta di non avere alcun obbligo nei confronti dei dipendenti di Wasteels (lo stesso vale per Servirail), che era una società appaltatrice di un suo servizio: dunque è solo per carità cristiana che l’amministratore delegato decide ora, dopo le proteste, di occuparsi del ricollocamento dei lavoratori; ché se questo diventasse un principio, su Trenitalia potrebbero scaricarsi centinaia di casi analoghi, vista l’elevatissima quantità di società appaltatrici dei suoi servizi. Dunque Moretti, il 23 dicembre, generosamente promette che ci penserà lui, che in 24 mesi gli 800 esuberi dei treni notturni saranno ricollocati. E come? Impiegando i ferrovieri nel “decoro delle stazioni”.
Tradotto, si tratta di proporre a un ultracinquantenne a tempo indeterminato con 25 o 30 anni di esperienza come personale viaggiante o riparatore o capotreno nei treni di notte, di accettare fra due anni (e intanto niente) un contratto interinale per pulire i cessi alle dipendenze di aziende che spesso durano l’espace d’un matin. La cosa che più colpisce è che nel respingere questa proposta i ferrovieri che incontro non pongono l’enfasi sul pulire i cessi – che giudicano attività di per sé nobilissima, e che alcuni si dichiarano perfino pronti ad accogliere come extrema ratio – ma sulla distanza e la precarietà temporale della prospettiva d’impiego, nonché – dal loro punto di vista di lavoratori non proprio alle prime armi – sulla mortificazione di una professionalità di lungo periodo, e sulla perdita complessiva della loro dignità. Non c’è bisogno di dilungarsi: basta un’occhiata, o bastano gli occhi bassi, per capire l’enormità della cosa.
Quando chiedo ai ferrovieri dei lumi sulla posizione dei sindacati, e sull’opportunità di intavolare una causa (di probabile successo, a mio modestissimo parere) dinanzi al tribunale del lavoro, le risposte non sono granché più confortanti: ci sono le pastoie del diritto europeo, la causa può durare anni – specie se dinanzi c’è l’ufficio legale di Trenitalia – e tra i sindacati gli unici a far qualcosa, a coordinare le azioni, a farsi un po’ vedere, sono stati quelli della CGIL. Ma poi – mi suggerisce qualcuno – quale vero aiuto possiamo aspettarci da sindacalisti locali e nazionali che sono essi stessi ex-ferrovieri e che dunque ricevono ogni mese la busta-paga da Trenitalia? E qualcuno dimentica che Mauro Moretti è stato dal 1986 al 1991 segretario nazionale della CGIL Trasporti? Anche per simili dettagli passa la maledizione italiana.
Queste persone semplici, dall’aria dimessa ma dalla sostanza umana lucida e inopinatamente battagliera, non possono fare a meno di notare quanto il sindacato stia perdendo il polso della situazione, se è vero – lo apprendiamo in diretta dai telefoni dei compagni – che sul Ponte della Libertà non si passa perché, come accade ormai di frequente, l’hanno bloccato gli operai della Fincantieri di Marghera, minacciati di una sorte non meno grama della loro. Sembra che i binari della disoccupazione, in questo Paese, siano destinati ad intrecciarsi; e forse a scontrarsi fra di loro, nella più classica delle guerre fra poveri, se sono vere le immagini del razzismo che serpeggia tra i disperati in ciò che rimane dei treni del Sud, e se non è un caso isolato la vecchina che qui davanti a noi, nel firmare la petizione esposta sul banchetto, denuncia che il vero problema dell’Italia sono i neri che tolgono il lavoro a “noialtri”.
3) La vicenda dei lavoratori dei treni notturni non può non interrogare la politica. Al presidio di Santa Lucia ieri ha fatto tardivo capolino il sindaco Orsoni, ultimo fra i suoi colleghi (Pisapia, Emiliano, Buzzanca e gli altri erano andati subito a visitare i presidi nelle rispettive città); non sfugge del resto agli stessi manifestanti che pochi, di questi tempi, vogliono compromettersi con rivendicazioni che paiono “vetero”, o impegnarsi in promesse che non saprebbero poi come mantenere; sicché perfino la tentazione di cavalcare la protesta cede il passo a considerazioni di Realpolitik, in un’era di “patto di stabilità” e di “sobrietà” bipartisan. Orsoni, che nel frattempo sta varando un Piano di Assetto del Territorio di rara perniciosità per Venezia, ieri ha dispensato parole di solidarietà, ha invitato a non demordere (col vecchio modo di dire veneziano”duri i banchi”, che diede anche il titolo a un vecchio album dei Pitura Freska), e ha garantito che terrà conto della situazione creatasi, pur dichiarando di non poter fare granché per sanarla.
In realtà, gli enti locali – anzitutto la Regione – potrebbero far sentire la propria voce ad almeno due livelli: denunciando il depotenziamento delle connessioni nazionali e internazionali, che rappresentano un oggettivo declassamento dell’area (a questa tematica potrebbe essere più sensibile il governatore leghista Zaia: veementi sono state le proteste del suo collega siciliano Lombardo), e soprattutto facendo valere il peso tutt’altro che indifferente del loro contributo finanziario al trasporto pubblico locale, che potrebbe essere – tutti qui lo credono – un eccellente bacino di riassorbimento dei lavoratori licenziati.
Ma il trasporto pubblico locale fa capo ovviamente a Trenitalia, che preferisce chiedere (come fa da tempo) cospicui turni di straordinario ai propri dipendenti, e, al bisogno, ridimensionare i servizi, o sopprimere i treni, o lasciarli sovraffollati fino al punto di esasperare i passeggeri; senza contare gli inopinati aumenti dei biglietti del 15 o 20%. Al punto che non si sa bene come potrà essere attuato il previsto piano di espansione delle connessioni “metropolitane” nel Veneto, se è vero – come ci informa un ferroviere in divisa che passa dal presidio per esprimere la sua solidarietà agli antichi colleghi – che la proposta di bilancio della Regione per quest’anno prevede per il trasporto pubblico locale un taglio di 15 milioni di euro rispetto al 2011 e di 34 rispetto al 2010: chissà se i fondi specifici promessi da Monti nella famosa conferenza stampa delle lacrime forneriane serviranno a tappare queste falle.
La mattina è alta, il sole terso di gennaio si staglia ormai sulla cupola di San Simeone, su quello spettacolo inimitabile che i ferrovieri del presidio, a turno, contemplano notte e giorno sotto le più diverse luci e nelle più diverse accezioni. Perché la notte a Venezia, nel cuore dell’inverno, è un mondo a parte in cui s’incontrano le persone più strane (tutte innocue, ma strane), un universo in cui il freddo umido rende traslucido lo sguardo sul reale, o certe volte al contrario – e a Santa Lucia forse più che in ogni altra parte della città – lo imbriglia in una coltre di nebbia densa e favolosa. Stamattina, come ogni mattina, solo poche delle persone che frettolosamente sciamano dalla stazione si fermano a parlare: alcuni guardano incuriositi; altri passanti si chinano a firmare la petizione (in un mese sono comunque già diverse migliaia); diversi residenti dei viciniora portano viveri o generi di conforto; e ogni tanto i marinai dell’ACTV, quando passano coi vaporetti, suonano il clacson in segno di saluto. Poi succede l’inaspettato: si avvicina un signore molto anziano, ma dal passo sicuro e dallo sguardo fiero. Saluta, dice il suo nome (“Pietro Soranzo”), e pian piano gli occhi degli altri, arrossati dal gelo e dal poco sonno, s’illuminano.
Pietro è stato ferroviere, ha lavorato nelle carrozze-letto che da Venezia andavano in Italia e in Europa, e anche nelle vetture ristorante, quelle che negli ultimi tempi, sui treni di notte, non c’erano più perché la RSI, ennesima ditta appaltatrice di Trenitalia, da mesi non pagava i lavoratori della manutenzione (lo sciopero metteva in forse l’esistenza stessa delle cuccette e dei vagoni-letto prenotati, come ricorderà chi ha viaggiato l’estate scorsa). Pietro è andato in pensione nell”87, ma i padri dei ferrovieri che oggi scioperano lo conoscevano bene, e poi suo figlio ha lavorato anche lui sui binari: inizia a dipanarsi lì, sulla soglia della città più ostentatamente opulenta d’Italia, un reticolo di conoscenze che mostra quanto i mestieri nel nostro Paese si tramandino di padre in figlio, e quanto anche questa catena ormai rischi di essere spezzata non in nome di un’accresciuta mobilità sociale, ma in pro di un’incertezza esistenziale e di un disagio che non trova sbocchi di rappresentanza, nonostante le delegazioni spedite da Napolitano e le trattative intavolate presso pavidi ministeri.
Pietro tira fuori dal taschino una fotografia. È stata scattata poco distante da qui, in Campo San Geremia, dove sono conservate le ossa di Santa Lucia, quelle che un tempo stavano nella chiesa distrutta per far posto alla stazione: raffigura i ferrovieri durante un’agitazione del 1963. Chiusi a capannello, i dimostranti di oggi individuano i loro maiores, spesso aiutandosi con nomi, parentele, memorie di viaggi comuni. E come spesso in Veneto, una forma di laconico e amichevole cameratismo copre la commozione dei ricordi.
Io credo che la nostra società avrà fatto un grande acquisto quando ogni goccia del fiume di persone, vestite per lo più molto meglio degli operai delle officine Lumière, si fermerà a lambire quella tenda riconoscendovi una parte di sé, anziché giudicare questa protesta come corporativa o antistorica. Le separazioni e le discriminazioni fra i cittadini – magistralmente effigiate nella nuova quadripartizione dei Frecciarossa, con gli immigrati in quarta e i dirigenti in prima, come mostra lo spot di Trenitalia – innescano il meccanismo per cui alla fine i professori universitari si disinteressano delle sorti dei portieri che aprono loro le aule, e i turisti di Lampedusa obliterano gli Africani che muoiono nella spiaggia accanto: il meccanismo splendidamente descritto da Emanuele Crialese in Terraferma.
È anche questa partita, la partita del vedere e soprattutto del voler vedere, che si gioca qui, in questa fredda e tersa mattina dinanzi alla tenda di Santa Lucia – la santa che per non tradire se stessa mise sul piatto i propri occhi.