Il megalomane don Verzé
Aldo Cazzullo sul Corriere racconta chi era il fondatore del San Raffaele, "molto amato e molto odiato"
I giornali di oggi dedicano parecchie pagine a don Luigi Verzé, che è morto l’altro ieri, amplificando la già nota asincronia dei giornali di carta rispetto agli eventi che raccontano. Aldo Cazzullo descrive così sul Corriere della Sera il fondatore del San Raffaele.
Se don Luigi Verzé (Illasi, 14 marzo 1920-Milano, 31 dicembre 2011) se ne fosse andato un anno fa, sarebbe stato ricordato come l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative, di cui la magistratura si era occupata già ai tempi di Tangentopoli. Quest’ultimo, orribile anno è stato segnato dal suicidio del braccio destro Mario Cal, dalla rivelazione di pratiche tangentizie non estranee al crac finanziario, da intercettazioni — «stanotte ci sarà del fuoco» — in cui emergono linguaggi malavitosi e metodi criminali per liberarsi di vicini molesti e di chiunque rappresentasse un ostacolo.
In realtà, don Verzé non era ovviamente un criminale. Era un megalomane. La stessa megalomania che lo portò a fondare il San Raffaele lo induceva a comprarsi il jet privato per evitare le code al check-in. Lo spingeva a portare per primo in Europa la macchina per la tomoterapia — «quanto costa? Dieci milioni di euro? La voglio!» — e ad allestirsi zoo e scuderie dove scelse per sé un purosangue di nome Imperator. A chiamare per dirigere la sua università i migliori intellettuali italiani e a comprare fazendas in Sudamerica dove veniva fotografato a bordo piscina.
Era anche un autocrate, ed era affascinato dagli uomini che considerava suoi simili, fossero di destra o di sinistra, musulmani o atei, Gheddafi o Fidel Castro, che chiamava familiarmente «El Crapòn». Amico di Craxi, si portò a Tunisi quando il leader socialista venne operato all’ospedale militare da un’équipe del San Raffaele: don Verzé sbarcò dal suo jet, annunciò che aveva con sé un messaggio di Wojtyla per l’infermo, brigò per riportarlo in Italia o almeno a Parigi, si lamentò di Ciampi, litigò con il premier francese Jospin. Per Berlusconi aveva una fascinazione. Raccontava di averlo visto per la prima volta nel 1964, in clinica, e di avergli detto: «Lei guarirà, e farà grandi cose». (Don Verzé si considerava anche veggente: «È un dono che ho sempre avuto. Ma lo dissimulo, e non ne parlo, perché non voglio passare per un profeta»). A lungo i due hanno litigato: anche Berlusconi infatti era un suo vicino. «Stava costruendo Milano 2 — ha raccontato don Verzé —. Venne a propormi un’alleanza. Entrambi avevamo acquistato i terreni dal conte Bonzi. Ma quando andai dal nobiluomo per comprare un altro lotto che mi aveva promesso, mi rispose di no: Berlusconi mi aveva preceduto con l’assegno in mano; il conte era molto simpatico ma molto bisognoso di denaro, e non aveva resistito. Ne parlai con Silvio, che tracciò un fosso e propose un accordo: tu costruirai da qui verso Nord, io da qui verso Sud. Ma verso Nord era tutto terreno agricolo, non edificabile!». Insomma Berlusconi aveva fregato anche lui; il che non gli impedì di definirlo «un dono di Dio all’Italia». Anche perché con il Cavaliere collaborò per far deviare le rotte degli aerei che atterravano e decollavano da Linate, perché non disturbassero malati e inquilini.
Luigi Verzé è sempre stato molto amato e molto odiato. Fin da piccolo. Il padre possidente veneto lo adorava ma lo diseredò quando seppe che sarebbe diventato sacerdote. La madre lo baciò una sola volta in vita sua, il giorno della prima comunione. Fu segretario di don Calabria, un santo. Fin da giovane ebbe la fissa dell’ospedale. Da arcivescovo di Milano, Montini cercò di fermarlo. Don Verzé confessò di aver pregato perché non divenisse Papa («però lo stimavo moltissimo: ho scritto nei miei diari ogni frase che mi ha detto, come ho sempre fatto con i grandi che ho incontrato, per settant’anni»). A Borrelli inviò una lettera malaugurante che il magistrato gli rispedì indietro. Ma lo scontro più duro fu con Rosy Bindi, che da ministro della Sanità gli vietò lo sbarco a Roma. Lui così rievocava l’episodio, rivolgendosi come don Camillo direttamente al Padreterno: «Dio mio, tu mi hai tentato come hai fatto con Abramo, chiedendogli di sacrificare il suo figlio prediletto. Ma tu a me non hai mandato l’angelo a fermarmi il braccio, a me hai mandato Rosy Bindi, che è stata solo il magatello di ben altri poteri, di Roma ladrona; perché tale Roma è, anche se solo Bossi ha il coraggio di dirlo!». E qui don Verzé levava il dito con un sorriso enigmatico, evocando il don Bosco che annunciava imminenti funerali alla reggia per indurre Vittorio Emanuele II a non firmare le leggi di confisca dei beni ecclesiastici.