Venezia, tre scene dalla crisi
Che ne sarà di Occupy Wall Street, cosa discutono i critici del sistema capitalistico e bancario e altri pensieri dalla laguna
di Filippomaria Pontani
Scena prima
Università Ca’ Foscari, 23 novembre 2011. Per il primo appuntamento delle “Conversazioni sul nostro futuro” il rettore Carlo Carraro, uomo dell’ENI e delle Generali, ha scelto di invitare il banchiere Alessandro Profumo, che dopo aver diretto per 13 anni il gruppo UniCredit ha fondato una propria società di advisory (dal nome di Appeal Strategy&Finance), ed è ora membro del CdA dell’ENI, nonché del Supervisory Board della potente banca russa Sberbank. Tra gli stucchi e i decori dell’Auditorium di Santa Margherita, ricavato tramite un paziente restauro all’interno dell’omonima chiesa barocca, l’attesa è alta, in specie dopo le recenti proiezioni di Profumo come ipotetico leader di un nuovo centrosinistra, e dopo l’indagine milanese che l’ha incriminato per frode fiscale nell’ambito dell’affaire cosiddetto “Brontos” (ne hanno parlato ampiamente, tra gli altri, “Report” e il “Fatto quotidiano”).
Appena Profumo cerca di prendere la parola, in diversi punti del teatro partono contestazioni d’ogni tipo: studenti accomodati in platea e nei palchi chiedono conto al relatore della sua buonuscita da UniCredit (circa 40 milioni di euro, di cui 2 donati in beneficenza), della frode di cui è accusato (per un ammontare di 245 milioni di euro), e della manleva con cui si sgrava delle responsabilità gestionali che in molti – anche in seno a UniCredit – ritengono all’origine della grave sofferenza attuale del gruppo (si ricordi in particolare nel 2005 l’acquisizione di HypoVereinBank, che ha condotto UniCredit nelle sabbie mobili dei mercati dell’Est Europa). Volano parole grosse: “ladro”, “assassino”, “vergogna”, ed epiteti non amichevoli accompagnano anche il Rettore che ha scelto di proporre proprio il suo amico Profumo come primo esperto e dunque indirettamente come modello ai propri studenti (aveva agito così anche pochi giorni prima, chiamando a parlare dinanzi ai neolaureati in Piazza San Marco l’amministratore delegato di VenetoBanca, interrotto e infine zittito dalle veementi proteste di genitori e studenti esasperati dalla pioggia e dalla beffa).
Quando, dopo diversi tentativi infruttuosi, alla fine qualcuno riesce a placare gli animi, è ormai chiaro che la contestazione sarà il fatto saliente della serata: la cosa trova conferma nel prosieguo dell’incontro, poiché la lectio del banchiere – dall’ambizioso titolo “Il futuro dell’Europa tra crisi economica e riforma del sistema finanziario” – si limita a insistere pedissequamente su tre punti: a) l’Europa è a rischio perché alcuni Paesi hanno speso troppo, e nel nostro Paese in particolare (che è il vero problema dell’Europa) il debito pubblico non è stato generato dalle banche; b) se l’Italia fallisce (e l’euro con lei) le svalutazioni e l’inflazione porteranno diffusa povertà, dunque bisogna insistere sulla crescita in modo da creare nuovi posti di lavoro e nuova ricchezza, anzitutto tramite le privatizzazioni, e poi tramite una tassa patrimoniale da 400 miliardi (!); c) fortunatamente la Commissione europea ha elaborato valide proposte per arginare le storture del sistema finanziario, che dovrebbero portare alla creazione di supervisori centrali e di un’autorità politica in grado di far da contraltare alla moneta unica.
Nessuna risposta viene dall’oratore sulle prospettive concrete dell’unione economica europea, sulla plausibilità di una crescita così forte da compensare la crisi del debito, sulla debolezza intrinseca del rapporto Larosière per la regolamentazione finanziaria (le misure di Obama, il Dodd-Frank Act, sembrano in confronto pressoché rivoluzionarie), o sulla natura delle passate privatizzazioni italiane (sempre eseguite “al rialzo” per fare cassa, al contrario di quanto è avvenuto in altri Paesi: L. Germano, Governo e grandi imprese, Il Mulino 2009). Sarebbero forse state utili, quelle risposte, in un Paese il cui principale giornale “progressista” traduce dal Guardian gli editoriali di Timothy Garton Ash invece che quelli di Simon Jenkins. Soprattutto, colpisce l’assoluta assenza di un seppur minimo cenno di autocritica: la gestione Profumo di UniCredit viene presentata come una grande opportunità di crescita e di occupazione (senza pensare non dico alle secche e ai licenziamenti degli ultimi tempi, ma anche solo all’andamento del titolo che dopo la fusione con Capitalia, e le plusvalenze incassate dai bene informati, è passato da 7 euro agli 1,5 attuali: cfr. L. Serafini, Italian Bankster, Fazi 2009); la concentrazione del sistema bancario in pochi mastodonti è presentata come una necessità storica (ora che perfino Obama scongiura di non creare gruppi too big to save), il ruolo delle banche come costante positiva insidiata da una politica ostile (!), le super-liquidazioni come giusti omaggi al difficile lavoro dei manager, e la vendita dei derivati come una normale operazione di mercato (splendida, e una vera carezza all’intelligenza degli astanti, la foglia di fico secondo cui “le nostre banche sono commerciali e non d’investimento”: e Cordusio-RMBS? e Adriano Finance? e Antenore Finance?).
Dinanzi al balbettìo degli economisti (anche quelli presenti sul palco in veste ufficiale di discussants, e altri che nella platea in subbuglio vanamente brandivano come camomilla le Riforme a costo zero di Tito Boeri), il dibattito cede il passo a una serie di stizzite contestazioni da parte del più turbolento uditorio: in aggiunta alle recriminazioni di studenti indignati e di giovani impazienti, ci vuole un piccolo imprenditore esasperato per rappresentare plasticamente il drammatico calo dei finanziamenti bancari alle attività produttive, con le quali il mondo sempre più finanziarizzato, impegnato nella creazione figurata di denaro, ha perso da tempo contatto. E ci vuole uno sconcertato filologo classico per raccomandare al pubblico un libro che chiarisca almeno il quadro generale in cui s’inserisce il passato di Profumo e il presente di Monti, o (il che è lo stesso) il presente di Passera e il passato di Draghi: L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi 2011. Sullo sfondo, evocato in chiusura da un anziano signore che contava (era quasi un mese fa) su una pensione ormai prossima, rimane appena sfiorato il tema della disuguaglianza sociale e della redistribuzione del reddito, che l’oratore ritiene forse marginale.
Scena seconda
Centro Sociale “Morion”, 6 dicembre 2011. Circondato dai manifesti di lotte e dimostrazioni condotte negli ultimi vent’anni in diverse parti del globo, un gruppo assai eterogeneo di spettatori si è riunito per assistere alla presentazione del libro di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza 2011. Come sempre – complici i vaporetti e lo strutturale lassismo temporale del luogo – s’inizia con 40 minuti di ritardo, in una notte umida ma non fredda. Mattei, professore di diritto civile a Torino e alla UCLA, è ben noto al pubblico di studenti, di simpatizzanti di mezza età, e di curiosi, come promotore del referendum sull’acqua, come editorialista del Manifesto, e come principale teorico italiano di un pensiero radicalmente alternativo rispetto ad alcune convenzioni correnti. Le domande della giovane moderatrice lo sollecitano a ripercorrere l’ossatura del libro, che vuole riprendere la tradizione utopistica alla Tommaso Moro per disegnare una progressiva liberazione dalle strutture che comportano esclusione, competizione e ingiustizia: Stato e proprietà privata.
Il radicalismo del discorso è forte (implica una critica del concetto di “diritto oggettivo” e di “legalità” o rule of law), ma conserva una sua logica coerente sia nell’analisi di lungo periodo sia in quella dei fatti recenti. I beni comuni non vanno intesi, secondo Mattei, come semplice soprammobile che orna un sistema già definito (così è avvenuto per esempio con le teorie di Elinor Ostrom, insignite del Nobel e prontamente risucchiate nel circuito dei buzzwords globali che già ha metabolizzato concetti potenzialmente rivoluzionari come “sostenibilità” e “green economy”, oggi patrocinati dai fautori della TAV e dai consiglieri dell’ENI): i beni comuni sono al contrario il grimaldello per uscire dalla dicotomia pubblico/privato (e dall’ormai onnipresente retorica del profitto), per favorire la nascita di forme di un governo partecipato che restituisca l’acqua, il sapere universitario, il patrimonio culturale, il lavoro, le cure mediche, la rendita fondiaria, l’informazione «alle moltitudini che ne hanno necessità».
Il discorso pubblico italiano, largamente in mano ai poteri che condizionano l’evoluzione politica, sembra avere totalmente cancellato il movimento dell’estate 2011, quando una campagna “dal basso” come quella referendaria ha fatto intuire al Paese un possibile passo verso la presa di coscienza del valore democratico della condivisione e della battaglia comune, completamente al di là e al di fuori delle direttive di partito (non è un caso che i referendum e le elezioni di Milano e Napoli abbiano segnato dure sconfitte della linea del principale partito dell’allora opposizione). Mattei allude addirittura a un nesso causale tra l’attacco speculativo insorto contro l’Italia poche settimane dopo i referendum e il rischio che un grande Paese europeo imboccasse strade diverse da quelle care al grande capitale internazionale – quest’ultimo non è un concetto astratto, ma si sostanzia di un discreto numero di banchieri, economisti e (ormai quasi indistinguibili) governanti preposti ad agitare spettri d’insolvenza per imporre politiche oggettivamente contrarie agli interessi dei più, e fondate sull’idea falsa che il debito pubblico riposi anzitutto sui lussi del welfare state invece che sulle sregolatezze del mercato finanziario globale.
Il fulcro del contendere è ovviamente il concetto di privatizzazione, prassi alla cui discutibilità giuridica Mattei dedica molte pagine del suo libro, deplorando che essa sia ormai divenuta parte irrinunciabile di un discorso politico che accomuna senza distinzioni partiti d’ogni colore (esperienze come quelle dell’ABC, l’Azienda per l’Acqua Bene Comune di Napoli, rimangono purtroppo marginali). Chi nutra dubbi sul nesso fra privatizzazioni, governo del capitale e democrazia, non avrà che da guardare all’esempio greco, dove lo spolpamento forzato delle risorse del Paese (dagli aeroporti alle isole) avviene sotto la guida di economisti di fiducia nemmeno eletti da alcuno, e dove il solo annuncio di un referendum da parte del precedente premier ha condotto alla sua fine politica: che indire un referendum su misure tanto draconiane non sia un omaggio minimo dovuto alla democrazia (se ancora esiste il concetto), può essere sostenuto solo da quanti credono che il popolaccio vada governato da chi ha senno e soldi. O da quanti traggono linfa dalla denigrazione della gestione pubblica per incensare il modello privatistico (un economista del PD, durante l’incontro con Profumo, mi contestava: “ma allora tu l’acqua vuoi lasciarla in mano alle mafie dei partiti?”), e per giungere sull’onda dell’indignazione popolare alla denigrazione della politica in quanto tale, e indirettamente della democrazia rappresentativa (gli USA, certo, hanno molti meno parlamentari di noi: qualcuno ha presente quali fortune e quali appoggi lobbistici sono indispensabili per essere eletti al Congresso in quel Paese?).
Tra gli interventi nella discussione si è segnalato quello di Beppe Caccia, che è uno dei pochi consiglieri comunali di Venezia ad aver condotto, pagando anche di persona in termini di minacce e percosse, battaglie contro gli scempi con cui le amministrazioni del PD hanno devastato la città, dalle grandi navi al Mose alla cementificazione del Lido a TesseraCity. Caccia ha insistito sull’utilità del concetto di “beni comuni” come meccanismo di redistribuzione della ricchezza, e nel solco della visione “utopistica” promossa da Mattei, alternativa alla pratica delle enclosures o alla presentazione dello “stato di natura” come il caos originario del bellum omnium contra omnes, ha richiamato esempi peraltro geograficamente a noi limitrofi, come il “Kommunalismus” dei Grigioni e gli articoli di Ilanz (1524). Che credesse o meno alla praticabilità di questo tipo di evoluzione politica e organizzativa, il pubblico, silenzioso e attento nelle cospicue nuvole di fumo (raro l’abbaiare degli immancabili cani), era così indotto a convogliare lo sdegno per le alte retribuzioni dei banchieri in una considerazione più larga del problema, ovvero nel quadro dell’ormai assoluta sudditanza degli organismi democraticamente eletti alla volontà delle classi dominanti (in particolare le corporations). Lo smantellamento del welfare state, gli interventi su salari, pensioni e mercato del lavoro, e insomma tutto il rush-to-the-bottom cui stiamo assistendo in questi mesi non rappresentano che il trionfo di un’ideologia fondamentalmente neoliberistica che risponde agli interessi delle corporations (tutto si fa, dichiaratamente, per attirare i loro investimenti), e promuove i tratti salienti dell’ homo oeconomicus, ovvero individualismo, dominio e dimensione quantitativa: la retorica del marketing, del consumo e della “crescita” anche quando questi sono palesemente insostenibili sul piano dell’ecologia e dei bisogni; la retorica dell’affermazione di sé legata alla competizione individuale nei termini della quantità di credito bancario ottenibile da ciascuno; la retorica dell’inevitabile opposizione fra sovranità statale e libertà privata, in nome della religione del soldo e a esclusione di ogni idea di “comune”.
Scena terza
Venice International University, Isola di San Servolo, 15 dicembre 2011. La Conference Room di questa ricca e trendy istituzione internazionale, che accoglie i visitatori con poderose opere di Plessi nell’atrio, è popolata da un folto pubblico accorso per assistere a un dibattito fra il politologo Michael Hardt e l’artista René Gabri in merito al movimento Occupy Wall Street. Pubblico meticcio (tanti occhi a mandorla, molto slang americano), lingua veicolare – del resto statutaria nell’istituzione quasi extraterritoriale – l’inglese.
I due ospiti, moderati da Stefano Micelli e accompagnati dai commenti della sociologa Francesca Coin, affrontano il fenomeno da due angolazioni diverse: Gabri come attore diretto di forme di autogestione e di “democrazia partecipata” già ben precedenti il movimento Occupy (anzitutto 16Beaver), e successivamente legatesi alle manifestazioni di Zuccotti Park e dintorni; Hardt come teorico di una linea di pensiero che rifiuta la globalizzazione e la sua governance, dipingendola – è il titolo del libro che ha scritto insieme a Toni Negri nel 2000 – come un “Impero” da sconfiggere.
Se dunque Gabri insiste sul sentimento di “elettricità” e di libertà contagiosa che il movimento Occupy ha instillato nel cuore di New York, e celebra l’egualitarismo “orizzontale” che vi prevale, lasciando spazio alla libera creatività artistica e teorica anziché alla trasmissione gerarchica del sapere (memorabile un recente seminario dal titolo “Truth and politics”), Hardt si pone il problema della continuità del movimento newyorchese rispetto alla striscia partita da Tunisi e passata per il Cairo, Madrid, Atene, Tel Aviv, Londra e da ultimo Mosca. Per Hardt questi fenomeni non sono soltanto uniti da analoghe rivendicazioni (per la democrazia, contro la concentrazione del potere), ma vanno letti in un quadro globale, in quanto ciascuno si è più o meno dichiaratamente modellato sui precedenti: in tal senso, egli rivendica anche una forma di continuità rispetto alle esperienze dei “no-global” del 1999-2001 (da Seattle a Genova), con la sostanziale novità che oggi i movimenti sono stanziali e non più nomadi.
Viene da chiedersi se il sostanziale fallimento di quei movimenti, che pure la storia successiva ha mostrato ricchi di buone intuizioni e di buone ragioni, non debba insegnare qualcosa agli epigoni attuali. Ma nessuno lo chiede. E la nebbia fitta che avvolge la Laguna (a poca distanza occhieggia San Lazzaro degli Armeni, in lontananza il Lido) si impadronisce dell’ampia capriata sulle nostre teste quando si arriva a parlare di obiettivi e prospettive del movimento Occupy: Gabri si spinge ad auspicare che lo Stato venga espropriato di tutto il potere che gli assegniamo oggi, mentre Hardt più prudentemente individua la forza di questo movimento proprio nel fatto di non avanzare richieste, nella sua pretesa di sviluppare pensieri, metodologie e verità “inattuali” in quanto “più avanzate” rispetto allo stato del dibattito presente, ergo da valutare in un orizzonte di lungo periodo.
Non pare preoccupi nessuno la (viceversa concretissima, anzi immediata) possibilità che, aspettando la riscossa di primavera, Occupy Wall Street venga risucchiato, nella rappresentazione generale, nel maelstroem del velleitarismo, o peggio venga consegnato alla storia come ciò che sicuramente non è, ovvero un rifugio elitario per i quaranta-cinquantenni senza lavoro o, peggio, un fenomeno mediatico in ultima analisi funzionale alla conservazione dell’esistente. Hardt ha facile gioco a osservare che perfino Obama, come tutto il resto della politica americana, si è dovuto prima o poi confrontare con questo fatto nuovo (nuovo per l’America, almeno); ma quando dal pubblico si reclamano dettagli sull’elaborazione di un’agenda politica che traduca in “azioni” le sacrosante rivendicazioni di “social equity”, o sulla chance di intercettare nel largo pubblico (l’ambìto 99%) qualcosa che non sia solo il dissenso rispetto a uno status quo ormai poco sostenibile, le risposte stentano ad arrivare.
La sola Coin, forse più sensibile al tema in quanto italiana, fa notare come un’iniziativa come Occupy è nata in un clima storico, quello della crisi dei subprime e dei suoi inestinguibili effetti, ma sta ora prosperando in un altro, ovvero nella cornice di un debito che non attanaglia più solo i privati ma le nazioni stesse, un debito che va inteso sia come stato economico sia – più proficuamente – come stato psicologico di soggezione individuale e collettiva, come stato d’eccezione: forse in fondo proprio questa funzione di Occupy come grimaldello di condivisione per ripensare e infirmare le catene degli attuali meccanismi della ricchezza (una funzione alquanto diversa da quella che hanno assunto le mobilitazioni nei Paesi arabi) potrebbe risultare alla lunga – se ben sfruttata – la sua forza. Una forza da giocare nei prossimi mesi sul filo dell’elaborazione teorica, anche collettiva e forse soprattutto universitaria, ma chiamata a misurarsi nel breve periodo con il dilemma annoso di simili movimenti, ovvero il rapporto con la democrazia rappresentativa.
Coda
La crisi presente pone tutti noi dinanzi a interrogativi profondi, e ognuno beninteso può reagire ai diversi argomenti qui esposti (e a molti altri) secondo le proprie convinzioni, nella speranza magari che sia anche disposto a metterle in discussione. Allo stesso modo, ogni interessato può liberamente interrogarsi sul ruolo dei partiti di “sinistra” in questa dinamica di pensiero: il ruolo attuale molti lo definirebbero, nella migliore delle ipotesi, come il classico, e responsabilissimo, “kicking the can down the street” (prendere a calci il barattolo, ndr). Tuttavia, restando sul piano strettamente metodologico, colpisce che l’università pubblica – luogo per eccellenza della ricerca e dell’avanguardia – ospiti una celebrazione del dibattito mainstream, con valutazioni prudenti, difesa di posizioni acquisite, e nessun respiro che vada al di là dell’ovvio (se non fosse per la peraltro inattesa portata delle contestazioni), mentre una forma di riflessione più evoluta (certo criticabile, ma difficilmente liquidabile come mero velleitarismo, e certo non da parte dei tanti che a giugno si rallegrarono per gli esiti elettorali) trovi il suo palcoscenico all’interno dei centri sociali.
Chi legga i libri di Gallino e Mattei (pur così diversi) troverà pagine illuminanti sul ruolo “performativo” che molti dipartimenti di economia hanno svolto nella degenerazione del sistema finanziario, e altre pagine sul peso dell’evoluzione aziendalistica dell’università (perseguita in omaggio a una stolida celebrazione del sistema americano, di cui non si approfondiscono o non si dichiarano i meccanismi latenti) nel mantenimento dell’ideologia dominante. Forse varrebbe la pena di meditare sulle forme (sempre più rare, e non certo limitabili ai nostri clic e ai nostri laptop) di condivisione del sapere, e di conseguente azione “politica” nel senso più alto del termine.