Marina Petrillo, che cambia il giornalismo con Twitter
Come l'account di "Alaska" è diventato il caso più interessante dell'uso rivoluzionario di Twitter nell'informazione, e un successo di ammirazione e followers
Marina Petrillo ha 44 anni, fa la giornalista a Radio Popolare, dove conduce da molti anni una trasmissione quotidiana che si chiama Alaska. Gli ascoltatori di Radio Popolare la conoscono bene, ma nell’ultimo anno ha trovato un nuovo mezzo dove è apprezzatissima per un lavoro giornalistico nuovo e interessantissimo: Twitter. Quello che Petrillo fa con l’account @alaskaHQ – probabilmente il più completo e continuo servizio di informazione sulle rivoluzioni nordafricane del 2011 – è anzi rivelatore di un uso di Twitter proficuo e ammirato, che vale la pena raccontare in queste settimane in cui Twitter è stato “scoperto” da un gran numero di italiani, col concorso di alcune “celebrities” che ne stanno facendo grande uso.
Petrillo lavora a Radio Popolare dal 1989 (con un intervallo in RAI). Alaska è un programma che raccoglie storie e notizie dal web. Il 5 maggio del 2010 si è creata un account su Twitter: «I colleghi che erano su Twitter dall’inizio mi prendevano in giro perché diciamo che non sono proprio un drago del digitale, ancora oggi non ho nemmeno una pagina Facebook. In principio Twitter mi sembrava un buon modo per riunire la community degli ascoltatori del mio programma e permettere loro di interagire con me, di sapere qualcosa di come preparo la trasmissione, avere anticipazioni, ecc. Ma è successo abbastanza presto che mi sono innamorata – del messaggio in 140 caratteri, delle reti che si possono costruire in base a chi si segue, di quello che succede quando cominci a intrecciare i fili personali in una cronaca collettiva, insomma, del potenziale narrativo di Twitter».
Con l’esperienza di aggregazione delle fonti online costruita con Alaska, un po’ alla volta Petrillo ha raccolto una rete di account affidabili: «Era avvenuto il disastro della BP a primavera del 2010, e avevo cominciato a seguire i blogger, bravissimi, che twittavano dai luoghi della costa colpiti dalla macchia di petrolio. In quel momento ho capito che lo stesso potenziale di informazione diffusa dal basso che mi stava a cuore nei blog si stava trasformando in qualcosa di ancora più potente, veloce e capillare con Twitter. Intanto i follower di Alaska aumentavano, pian piano, e anche la vicenda del vulcano islandese è stata un’esperienza indicativa del racconto collettivo e sincronizzato che si poteva tentare. Quando sono arrivate le rivoluzioni arabe, dal dicembre del 2010, Twitter stesso ha subito una vera rivoluzione, diventando il social media più usato sia per l’attivismo che per l’informazione dei grandi media, triplicando il numero di utenti in meno di un anno, e io sono stata fortunata a trovarmi nel posto giusto in quel momento, con quel tipo di programma alla radio e con questa grande passione. L’evento decisivo per me è stato, come per tanti, l’interruzione di Internet in Egitto per mano di Mubarak a gennaio – il tam tam si è sparso in una o due ore, ero solo una delle persone che davano una mano a raccontare quello che stava succedendo a piazza Tahrir mentre loro non potevano. Poco dopo, nella giornata dei Cammelli, il massacro in piazza, ho twittato per la prima volta per 14 ore consecutive, senza neanche mangiare. Mi sono affezionata alle voci e alle vicende personali di ognuno, e non li ho più lasciati».
Il lavoro pazzesco di informazione sulle rivoluzioni nordafricane fatto quest’anno da Petrillo le ha guadagnato grandissima stima: i suoi followers sono diventati quasi quattromila (numero rilevantissimo per una giornalista che non ha notorietà nazionali diverse) e riceve quotidiane attestazioni di riconoscenza per come – aggiornando e retweettando – li ha tenuti informati su quello che stava succedendo: per i colleghi interessati, e per il Post, il suo è diventato un lavoro essenziale e ammirato. Da qualche giorno è al Cairo, dove è andata a seguire le elezioni e le tensioni di questi giorni, dopo mesi passati a essere lì senza esserci: «In realtà non ne so nulla. Studio e leggo di continuo, tutto quello che so l’ho imparato in questi undici mesi, man mano che incrociavo le informazioni e mi assicuravo della solidità del contesto. Ma ho l’enorme fortuna di lavorare in un posto pieno di stimoli e di competenze diverse; il nostro caposervizio esteri, Chawki Senouci, credo che in questo anno abbia pazientemente risposto a un milione di mie domande. Io vado da lui con la notizia che arriva su Twitter tre ore prima che sulle agenzie, e lui mi aiuta a interpretarla, a contestualizzarla, e mi racconta storie appassionanti. E quando twitto una situazione “d’azione” ho sempre davanti le mie cartine e faccio ricerche».
Quello che Petrillo e il suo lavoro descrivono è la centralità di Twitter nella diffusione immediata delle notizie, oggi. Che si dispiega in due modi soprattutto: i grandi siti di news e le agenzie di stampa internazionali ormai diffondono su Twitter le notizie e le “ultim’ora” prima che su qualsiasi altro strumento (nei giorni scorsi c’è stato il dicusso caso di Associated Press, che ha chiesto ai suoi giornalisti di non dare le notizie su Twitter prima che le dia l’agenzia): e questo vale soprattutto per le aree del mondo più “illuminate”. Nel contempo, da altri luoghi del mondo le notizie arrivano per prime dagli utenti di Twitter: e Petrillo dimostra che non è solo un semplificato discorso di “citizen journalism”, ma che la competenza e la capacità di filtro e verifica proprie della professione giornalistica ben intesa sono più importanti che mai, e la collaborazione tra giornalisti e fonti – e a volte il loro scambio di ruoli: Petrillo ha le sue fonti, per esempio, ed è a sua volta fonte del Post, ogni passaggio con ulteriori elaborazioni – è fondamentale.
«La mia grande passione di questi ultimi anni è il tema della riconquista della vita pubblica, forse perché sono italiana, e per di più milanese, quindi doppiamente sofferente per come l’idea di vita pubblica ci è stata sottratta nel tempo. Mi interessa la vita pubblica delle città, la componente gratuita e fertile della convivenza umana. Per come uso io Twitter, racconto storie che sia nel mezzo che nel contenuto rivendicano la dignità di una sfera pubblica aperta al contributo di tutti, e il criterio che uso di solito è di raccontare storie che arrivano da chi non ha altro modo per farsi sentire. E poi ho un po’ il pallino di costruire un’eccellenza; spero sempre che se seguo i migliori, allora anche i miei follower impareranno a twittare meglio, in modo più efficace. Twitter si può usare in tanti modi, ma alla fine può essere solo il massimo che riusciamo a farne noi, e penso che non sia male mostrare come twitta chi lo fa ad alto livello. E chi si rivolta quest’anno sta difendendo gli spazi pubblici nella loro accezione più alta, dal concetto di suolo pubblico al concetto di democrazia. Sono stati gli avvenimenti di quest’anno a creare la mia narrazione su Twitter, non viceversa. E ho imparato che chi twitta per questioni di vita o di morte, al contrario di noi che twittiamo da casa, è concentratissimo su come trarre il massimo dallo strumento che ha, è una scuola ogni giorno, una scuola di umiltà. Allo stesso tempo, la grande forza di Twitter è quella della diretta corale, mentre diventa più fragile nei momenti di elaborazione e di riflessione. In quei momenti bisogna scrivere, e leggere, cose di ampio respiro, molto più vicine al giornalismo tradizionale. Per questo per me è particolarmente fruttuosa la combinazione di Twitter e radio».
Le fonti aggregate e selezionate da Petrillo sono molto diverse tra loro: ci sono giornalisti professionisti, attivisti, blogger, testimoni che scrivono informazioni su Twitter. Oggi in molte emergenze giornalistiche – rivolte, guerre, catastrofi naturali – il flusso di informazioni che arriva su Twitter può essere ricchissimo e non basta raccoglierlo intorno a un criterio di ricerca o un hashtag: circolano tweet superati, altri inattendibili, altri male informati e alcuni del tutto falsi. Petrillo dice di non usare gli hashtag: «Mai. Ho costruito nel corso dei mesi una Twitter List di reporter specializzati e di tweep (utente di Twitter, ndr) locali. Li ho scelti uno per uno, con grande lentezza, verificando chi era affidabile, veloce, chi scrive bene, chi ha buone fonti, chi non fa pasticci con le foto, i video, le date e i nomi. Di ogni tweep che seguo so chi è, cosa fa, dove sta, come preferisce twittare, e a quali altri tweep è collegato. Un nucleo è composto dai blogger della prima ora, un nucleo invece dai giornalisti, che spesso si spostano, e il grosso da tweep e attivisti sul posto. In rarissimi casi, cioè per blitz nuovi e rapidissimi, tipo i sei giorni in cui ho seguito il sequestro dei giornalisti internazionali al Rixos di Tripoli, allora faccio una ricerca intensiva aiutandomi anche con gli hashtag, ma una volta scelta la mia rosa di tweep affidabili, uso esclusivamente quella. Preferisco raccontare una storia circoscritta, soggettiva, ma solida».
Il lavoro di Petrillo, ancora nuovo in Italia, e che lei rappresenta molto bene sia per qualità dello svolgimento che per attenzione e seguito ricevuti, è un nuovo ruolo giornalistico per niente secondario: «Dopo qualche mese che twittavo in questo modo, ho scoperto che è un lavoro, un nuovo mestiere, che si chiama social media editor. Anche i grandi quotidiani internazionali si sono dotati di questa figura. Il maestro per tutti è Andy Carvin di NPR, che lo fa da prima che esistesse Twitter, e ad altissimo livello».
Quanto pensi di stare al Cairo ora?
«Sono qui per Radio Popolare, sto facendo diversi racconti in diretta da Tahrir, sono arrivata giovedì e ci resterò solo fino alla prima giornata elettorale, lunedì, anche se ne è appena stata aggiunta un’altra martedì, sperando che tutto possa svolgersi regolarmente. E immagino che quanto tornerò a twittare dalla scrivania sarà tutto molto diverso. Lo è già».