Soffia il vento sul Kosovo
Che cos'era, che cos'è adesso, cosa può diventare e cosa c'entriamo noi, nel reportage di Filippomaria Pontani
di Filippomaria Pontani
Soffia il vento in cima al memoriale di Kosovo Polje, la torre che svetta sul Campo dei Merli dove nel giugno del 1389 si combatté tra i Turchi Ottomani e i Cristiani la battaglia decisiva per il controllo dei Balcani. Sul bordo del mastio, una targa di metallo raffigura in una piantina gli schieramenti dei due eserciti copiosi e compositi, le loro mosse e la posizione dei due comandanti, il sultano Murat e il principe Lazar, entrambi destinati a trovare la morte in quella giornata. Ma se alzo lo sguardo verso l’orizzonte, là dove insistevano i due accampamenti, vedo ora le ciminiere della centrale termoelettrica più inquinanti d’Europa, la famigerata Kosovo A, che da cinquant’anni brucia lignite locale e fumiga incessante ammorbando l’aria di Pristina, un paio di chilometri a sud. Verrà chiusa – sembra – nel 2017, quando gli investimenti americani avranno avviato una Kosovo C, più moderna, pulita e sicura.
Da quassù si vede ad un passo la strada che mena a Belgrado, la strada del nord che attraversa le zone ancora in mano ai Serbi, la provincia di Kosovska Mitrovica: una strada sconsigliata ai viaggiatori stranieri, nervosamente percorsa da 4×4 segnati “UN” o “KFOR”, e destinata a sfociare nei valichi 1 e 31 con la Serbia (Jarinje e Brnjak), presso i quali alla fine di luglio si sono riaccesi gli scontri. Le cronache raccontano di poliziotti di etnia albanese inviati dal governo di Pristina ad assumere il controllo di quelle dogane – attualmente gestite da Serbi e da forze internazionali – per bloccare in segno di ritorsione le importazioni dalla Serbia, visto che quel Paese non accetta prodotti che rechino il timbro del Kosovo, non riconoscendolo come Stato autonomo: i più spiritosi hanno parlato di “crisi dei biscotti Plazma”, dal nome di un noto prodotto che rischia di diventare introvabile a Pristina. Le cronache raccontano di resistenze organizzate dei Serbi locali, di tafferugli di hooligans serbi determinati a impedire il passaggio di consegne. Ci è scappato il morto tra gli incauti poliziotti, e si è riaccesa per un attimo la luce su questo lembo d’Europa che le diplomazie e i media, distratti dalle primavere arabe, degnano ormai di rare attenzioni. Poi la condanna circospetta di Belgrado, le proteste e le accuse del premier Hashim Thaci, le dimostrazioni di Serbi e Albanesi, e di nuovo il silenzio. Ma quella scaramuccia non è stata un fatto isolato.
Chi entra in Kosovo rimane stupito, d’emblée, da due spettacoli inattesi: sui cartelli stradali, in larga parte bilingui, i toponimi serbi sistematicamente cassati da getti di vernice o colore, così da lasciare leggibili solo quelli albanesi; sulle case e i pennoni non già la bandiera a sei stelle del neonato stato indipendente (una stella per ogni etnia: oltre alle due dominanti, i turchi, i rom, i bosniaci, i gorani), bensì quasi ovunque l’aquila bicipite di Shqipëria, non di rado appaiata, incrociata, connessa, al vessillo degli USA. Questi piccoli segnali spiegano anche, in parte, le realtà macroscopiche all’intorno, soprattutto a Pristina e nei centri più grandi: le case appena finite o ancora attaccate alle gru, i centri commerciali fiammanti, l’enorme statua della Libertà che troneggia sul frontone di un albergo, le ruspe che in pieno centro rinnovano quartieri fatiscenti. Ci sono soldi per costruire, a Pristina, e c’è l’America.
Non a caso, uno dei viali più lunghi della capitale è intitolato a Bill Clinton, una cui statua a grandezza naturale, su alto piedistallo, saluta le auto col braccio sinistro in uno dei punti nevralgici del traffico cittadino. Se cerco nella mia corta memoria qualcosa di simile, mi sovviene l’Avenue George W. Bush che collega l’aeroporto di Tbilisi al centro città – ma i Georgiani, almeno fino a un paio d’anni fa, si erano limitati ad apporre sul cartello una foto del presidente, senza arrivare al simulacro di bronzo. L’analogia stradale è meno peregrina, forse, di quanto possa sembrare d’acchito: dietro ai cospicui investimenti americani in entrambi questi Paesi vi è stato il medesimo disegno d’imporre (“democraticamente”, beninteso) una classe dirigente manipolabile e obbediente, pronta anzitutto ad opporsi all’influenza russa e slava in due punti nodali della trasmissione delle risorse energetiche del Caspio (si veda quanto scrive in proposito un’Americana: Marjorie Cohn, The Myth of Humanitarian Intervention in Kosovo, in A. Jokic, Lessons of Kosovo, Peterborough ON, Broadview 2003, 121-52). Non sempre le ciambelle escono col buco, e talora i governanti “amici” possono prendere iniziative avventate, come accadde in Ossezia nell’estate 2008 (lo ha ricordato Elena Favilli sul Post), quando uno spregiudicato Saakashvili scatenò il prevedibile putiferio di Tskhinvali, illudendosi forse di avere l’appoggio degli USA; o come è accaduto a fine luglio, quando un baldanzoso Thaci ha pensato di dettar legge nel nord del suo Paese, illudendosi forse di riscuotere il sostegno dell’Occidente compatto (e invece dinanzi agli armigeri serbi, a Jarinje i soldati europei se la son data a gambe; solo a Brnak, pare, i Francesi hanno reagito dando pan per focaccia).
Ma quelle iniziative, perché definirle “avventate”? Non era avventata nel 2008 (se non certo nelle proporzioni) la guerra di Saakashvili, il quale mirava a raggrumare attorno a sé il nazionalismo di un popolo che per mesi con imponenti manifestazioni aveva contestato la sua leadership (e cosa farà l’opposizione ora che Hollywood celebra il presidente sotto le fattezze di Andy Garcia? l’imbarazzante film 5 Days of August è fresco di uscita). Non è avventata ora la prova muscolare di Thaci, tesa a tacitare l’opposizione interna, e a ribadire il concetto che lui, l’antico generale, è l’unico possibile garante dell’albanesità del Kosovo. Perché non sempre si ricorda che Thaci, vittorioso alle elezioni del 2007, è stato uno dei quattro padri fondatori dell’UCK, la formidabile armata di liberazione che dopo gli accordi di Dayton, dove la questione kosovara fu colpevolmente ignorata (1995), prese il sopravvento tra gli autonomisti sulla linea non-violenta di Ibrahim Rugova, l’intellettuale con la sciarpina morto nel 2006. All’epoca, dopo il ’95 e ancor più dopo la crisi albanese del ’97, l’UCK iniziò una capillare campagna di reclutamento forzato per creare una forte opposizione popolare al dominio e alle pulizie etniche perpetrate dai Serbi di Milosevic, il quale proprio qua sotto, davanti alla torre memoriale di Kosovo Polje, aveva tenuto nel giugno 1989 il discorso-chiave della sua vita, quello che l’aveva trasformato in un pomeriggio da alto funzionario del Partito in fiero nazionalista a 24 carati.
Quel discorso aveva inaugurato di fatto la traumatica dissoluzione dell’unità jugoslava, del fragilissimo equilibrio escogitato dal maresciallo Tito, colui che (conscio della preponderanza albanese presente e futura) aveva promesso di restituire il Kosovo a Enver Hoxha quando fosse venuto il tempo, e nel frattempo l’aveva dotato delle maggiori autonomie concepibili in tutta la Jugoslavia. La Krajina, la Slavonia, la Bosnia, Srebrenica, Sarajevo: tutti i peggiori incubi degli anni ’90 nei Balcani sono figli di quel discorso, pronunciato qui, all’ombra della scritta che maledice tutti i Serbi che pur essendo Serbi non hanno combattuto a Kosovo Polje – una chiamata alle armi del tardo ‘300 (“non abbiano la progenie che il loro cuore desidera”: ma il dettato è stato rivisto nell’Ottocento da Vuk Karadzic, il dottissimo bardo di queste plaghe) che non ha mai davvero perso di attualità, e torna di moda per lo più contro nemici devoti all’Islam.
Il séguito della storia è noto, non foss’altro perché l’Italia è stata in prima fila, e perché ancora nel centro di Pristina campeggiano cartelloni cubitali che dissuadono i bimbi dal giocare a pallone nei prati: le mine sono ovunque. I Serbi avviarono un lento ma inesorabile programma di pulizia etnica contro gli Albanesi del Kosovo; l’Occidente, forse per lavare l’onta di Srebrenica o forse – come detto – per altri interessi, intervenne, e le bombe sganciate dagli aerei NATO partiti da Aviano nella primavera ’99 diedero vita all’ultima guerra di un secolo troppo lungo. Come altre bombe, furono spedite da un’autoproclamata “comunità internazionale” al di fuori di ogni risoluzione dell’ONU, gettando nello sconforto l’allora segretario Kofi Annan, e sancendo il principio della “guerra umanitaria” che i più avveduti, meritandosi la fama di cinici e indolenti (per es. Noam Chomsky, Il nuovo umanitarismo militare, Trieste, Asterios 2000), denunciavano come un pericoloso precedente ben prima che fosse rimpiazzato da quello, ad esso succedaneo, della “guerra preventiva” (Iraq, 2003). Di certo quelle bombe, oltre a ridurre in ginocchio tutta la Serbia (uno dei pochi Paesi riluttanti al predominio del pur declinante impero americano), dapprima precipitarono e intensificarono le ultime violenze delle milizie serbe sui civili albanesi, e poi – a guerra vinta – aprirono la strada alle prime violenze (tecnicamente, “pulizia etnica inversa”) dei miliziani albanesi sui civili serbi, in una nobile gara di stupri, di eccidi, di espatri, di impunità, che ha riempito di profughi i Paesi vicini (Serbia e Macedonia anzitutto), ha ridotto i Serbi al solo nord (la zona di Mitrovica, appunto), e ha consegnato il controllo politico all’etnia albanese, largamente maggioritaria, sotto l’ombrello del protettorato internazionale.
Non ha senso involversi ora nel dilemma se quella guerra, de facto se non de iure, sia stata “giusta” oppure no: sicuramente salvò moltissime vite, e sicuramente ne spezzò molte altre (per esempio, quelle dei 16 impiegati della tv di Belgrado, bombardata il 23 aprile 1999). Sicuramente fu un caso da manuale di propaganda mediatica, secondo lo stesso generale vittorioso, Wesley Clark, che nelle conclusioni del memorabile volume Waging Modern War (PublicAffairs, Oxford 2001) ha lungamente discettato dell’importanza dei mezzi di comunicazione per vincere le guerre nel mondo d’oggi. E ciò, beninteso, sia detto senza volere in alcun modo sminuire le atrocità commesse dai Serbi (i tifosi genovesi e i visitatori di Srebrenica sanno, in modo diverso, di cosa questi ultimi siano capaci): ma per un giudizio più equilibrato sugli antefatti dell’intervento, e sul modo in cui furono presentati i “campi di sterminio”, il “nazismo” e il resto, si può leggere l’articolo pubblicato sul Wall Street Journal nell’ultimo giorno del ’99 da Daniel Pearl, il giornalista destinato a essere sgozzato tre anni dopo in Pakistan. Chi avesse ulteriori sospetti e curiosità, può indirizzarsi per un bilancio di medio termine a C. Veneziano – D. Gallo, Se dici guerra umanitaria, BESA editrice, Nardò 2005.
Nel febbraio 2008, poi, il Kosovo è uscito dal protettorato occidentale, e si è autoproclamato indipendente, travalicando palesemente e unilateralmente i confini della vecchia risoluzione 1244 dell’ONU, e venendo così riconosciuto solo da alcuni Stati (in Europa per esempio non da Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania), e ovviamente non dalla Serbia, che continua a rivendicarlo come parte integrante del proprio territorio. Insomma per alcuni – ma solo per alcuni – il Kosovo è “NEWBORN”, come recitano pomposamente le grandi lettere gialle di zinco sciorinate da Fisnik Ismajli sulla grigia piazza di Pristina, all’ombra del grigio scheletro sovietico del Palazzo dello Sport (oggi cangiato in centro commerciale e d’incontri) e a pochi metri dal filo spinato che recinta il quartier generale delle missioni internazionali, tuttora presenti in Kosovo sotto tre specie distinte: l’ONU, cui faceva capo dal 1999 l’oggi defunta missione UNMIK; la NATO, che tiene qui di stanza le ingenti truppe della K(osovo)FOR(ce); l’Unione Europea, ultima arrivata nel 2008 con la missione EULEX, centinaia di giudici, poliziotti e funzionari, spediti quaggiù con il mandato di “implementare” giustizia, servizi e sicurezza.
Soffia il vento sul memoriale di Kosovo Polje. Guardare giù da questa torre persa nei campi non è uno sterile esercizio di attualizzazione del passato, né un vezzo nostalgico: ai miei piedi si stende il più rilevante tentativo dell’Occidente di creare uno Stato ispirato ai “nostri” principi, lo sforzo più massiccio di nation-building mai intrapreso dalla civilisation cui ci fregiamo di appartenere. Sono passati ormai 12 anni, e la scaramuccia di luglio comprime con l’urgenza del momento i tempi di un primo, parziale bilancio. Così, dietro alle bandierine incrociate, alle statue della Libertà e a quelle di Clinton, s’intravvede il vero potere che noi (l’Occidente) abbiamo insediato quaggiù: un potere – duole dirlo – a tutti gli effetti criminale. Criminale non solo, si badi, per i misfatti del passato: per quanto concerne quelli, tutti sanno che Agim Ceku, uno dei quattro fondatori dell’UCK e primo ministro nel 2006, fu uno degli artefici della pulizia etnica antiserba in Krajina; tutti sanno che Ramush Haradinaj, un altro dei magnifici quattro, anch’egli primo ministro nel 2004 sotto Rugova, è un pendaglio da forca che controlla col terrore intere province (dopo una breve incriminazione che lo costrinse alle dimissioni, nel 2008 tornò in Kosovo da eroe); né alcuno poteva attendersi dai vecchi leaders dell’UCK, ripuliti alla meglio nella giacchetta di leaders di partito, qualcosa di diverso da una politica discriminatoria, da violentissime faide intestine, da occasionali pogrom antiserbi (il più notevole ebbe luogo tra il 17 e il 20 marzo 2004, e morirono persone, furono distrutti monasteri).
Tutti sanno che dopo aver ordito e compiuto la più efferata delle mattanze, una notte del luglio 2000, Haradinaj è stato soccorso e curato nella base americana di Camp Bondsteel, la più grande d’Europa (può ospitare fino a 50.000 persone), sita nei pressi di Urosevac in un posto fra i più sorvegliati del globo. Chi fosse interessato ad approfondire l’incredibile storia di quest’uomo, dei suoi ricatti e dei suoi abili giochi di potere, dell’impunità che è stata garantita a lui e a decine di altri suoi pari dalle istituzioni internazionali (l’ONU in testa) “in nome della stabilità della regione”, chi insomma volesse capire cosa hanno significato davvero le faide tra l’UCK e l’esercito di Rugova (perché anche l’intellettuale con la sciarpina aveva un esercito, né sarebbe mai divenuto primo ministro senza aver stipulato accordi con i rivali che avevano decimato i suoi uomini), potrà leggere un libro sconvolgente, perché recente e perché ben documentato anche sulla situazione della provincia di Mitrovica, quella dove si è sparato pochi giorni fa (ed è un miracolo, in fondo, che non succeda ogni giorno): G. Ciulla – V. Romano, Lupi nella nebbia. Kosovo: l’ONU ostaggio di mafie e USA, JacaBook, Milano 2010.
«Finché in alcune di quelle zone ci saranno al potere delle élite [sic] corrotte, noi italiani non potremo sentirci sicuri a casa nostra»: così sentenziava Massimo d’Alema all’indomani della guerra (Kosovo, Milano, Mondadori 1999, p. 82). Una frase che suona quasi comica ora che la guerra è finita, che il “problema numero uno” (p. 72), cioè Milosevic, è venuto meno da un pezzo, e che quelle élites insediate dagli Occidentali hanno mostrato il loro volto mai celato.
È vero, il nazionalismo serbo ha segnato una battuta d’arresto; e non c’è dubbio che alcuni criminali assoluti siano stati assicurati, sebbene con anni di ritardo, alla giustizia internazionale. Ma bisogna constatare – lo accennavo poc’anzi – che il potere in Kosovo non è criminale solo retrospettivamente, in relazione a fatti di sangue di un passato nebuloso in cui non si salva nessuno (e certo comunque non i Serbi, che a Mitrovica e dintorni continuano a girare armati fino ai denti, impedendo a priori qualsivoglia ipotesi di “law enforcement” da parte di chiunque non sia disposto a dispiegare un esercito). Il potere è criminale hic et nunc, perché il Kosovo è diventato la centrale europea di ogni sorta di traffico illecito: armi, stupefacenti, organi, esseri umani, transitano o vengono gestiti su larghissima scala in questo piccolo territorio dove si entra allungando una mordida al doganiere, e dove governano soltanto le bande. Non è un’esagerazione giornalistica: è una realtà tecnico-giuridica (la dimostra con pazienza e perizia Antonio Evangelista, La torre dei crani, Editori Riuniti, Roma 2007), in larga parte dovuta al fatto che il potere è oggi nelle mani degli ex-militanti dell’UCK, e che i componenti di tale organizzazione vivono e operano secondo un codice d’onore (il famigerato kanun albanese, che invano Enver Hoxha aveva cercato di estirpare dal suo Paese d’origine) perfettamente confrontabile con quello delle organizzazioni mafiose del nostro Meridione – con le quali non a caso si sono impiantati da anni proficui rapporti di collaborazione e anche, com’è ovvio, sanguinose competizioni.
Non voglio, da questo luogo elevato, ricostruire le rotte della droga, scovare le case gialle degli orrori o documentare transiti d’influenza. Né voglio insistere sui dati economici che denunciano questo Paese come il più povero d’Europa, legato a doppio filo alle rimesse degli emigrati, in balìa di un’economia sommersa o illegale pari al 51% del PIL, e poco o nulla aiutato dai recenti ingressi nel CEFTA (Central European Free Trade Agreement), nel FMI, nella Banca Mondiale. Ciò che mi preme è rilevare, con I. King e W. Mason (Peace at any Price. How the World Failed Kosovo, London 2006), come nel nation-building del Kosovo siano mancati completamente due passaggi preliminari a ogni futura metafisica, ovvero l’impulso a un’evoluzione di mentalità che offrisse una visione alternativa alla vita per clan (e questa era questione di soft power), e la garanzia di una legge davvero rispettata da tutti (e questa era questione di hard power). Un territorio grande come l’Abruzzo, una popolazione di soli due milioni di abitanti, una profusione di soldati occidentali (in proporzione, 50 volte più che in Afghanistan), di polizia e di civili altamente qualificati: vi erano teoricamente tutte le condizioni per creare, in corpore vili, qualcosa di nuovo e duraturo; e invece il merito principale dell’intervento occidentale è stato, ed è tuttora, nel conservare.
Sì, nel conservare. Ieri mattina, dinanzi al patriarcato di Pec (per chi non lo sapesse, il Patriarca della Chiesa di Serbia ha la sede in pieno Kosovo, e ogni uscita sua o dei monaci deve essere scortata dai militari internazionali), dei soldati sloveni, accomodati in assetto di guerra a presidio del venerando monastero trecentesco, mi hanno chiesto, cortesi ma fermi, di attendere prima di entrare, perché era in corso una visita importante. Così nell’attesa sono salito per mezz’ora alle spalle del monastero, nella verdissima e stretta gola del Rugovo, trovando infissi in più d’un punto sulla roccia gli stemmi metallici dell’UCK, che in queste contrade combatté battaglie decisive e razzie. E allora, tornato e finalmente ammesso nel patriarcato, luogo ameno e fiorito del tutto incongruo al contesto in cui sorge, ho compreso la malcelata inquietudine della signora Dobrilla, arzilla e combattiva ottantenne serba, fieramente sciovinista e poliglotta, che in perfetto italiano (o francese, o inglese, o tedesco) illustra ai rari avventori le particolarità teologiche degli affreschi della Chiesa dei Santi Apostoli, le analogie e le distanze fra ortodossia e cattolicesimo, la storia di San Sava, figlio di Stefano Nemanja e fondatore della Chiesa di Serbia, oltre che del monastero di Chilandar sul Monte Athos – già, Chilandar, quel cenobio serbo in un angolo del Sacro Monte dove si favoleggia abbiano latitato per mesi prima della cattura Karadzic, Mladic e altri boia (né l’insinuazione pare improbabile: nel ’95 vi trovai nugoli di reduci e feriti che esibivano compiaciuti foto di case distrutte a Vukovar, Tuzla, Gorazde).
Ieri pomeriggio, davanti al portone del monastero di Decani (la cui chiesa trecentesca del tutto sui generis sembra cascata qui per sbaglio da Pisa o da Lucca), un gruppo di soldati portoghesi discuteva animatamente dell’ultimo arbitraggio della finale di Europa League (giocata, com’è noto, fra Braga e Porto); poco distante, nella garritta, due soldati dall’accento campano accoglievano con calorosa gravità uno sparuto drappello di visitatori italiani. Questi ultimi, nel bookshop gestito dai monaci, potevano trovare una recente guida della Serbia che caparbiamente include ancora il Kosovo, e che denuncia con forza di parte in appositi riquadri tutti i misfatti albanesi e occidentali (Viaggio in Serbia, Princip Bonart Pres, Belgrado 2007: guardando le sponsorizzazioni ci si domanda se non sia un tardivo by-product dell’affare Telekom-Serbia). Insomma: la missione della NATO chiamata KFOR è da anni dispiegata sul terreno, fra l’altro, per proteggere i monumenti ortodossi del Kosovo, anzitutto i monasteri nei quali il Cristianesimo serbo riconosce con pieno diritto i propri incunaboli. Non c’è bisogno di chiedersi cosa accadrebbe se i soldati di mezz’Europa non pattugliassero giorno e notte questi siti: lo testimonia, fra gli altri, il prezioso monastero dei Santi Arcangeli a Prizren, devastato nei moti antiserbi del marzo 2004 in seguito alla poco gloriosa ritirata di un contingente tedesco (proprio Decani, invece, fu allora difesa con coraggio dai militari italiani). Lo testimoniano i centri storici di Pristina, Pec, Prizren, costellati di recenti memoriali eretti ai guerriglieri albanesi e pian piano, quasi surrettiziamente, deprivati delle memorie medievali, cadute in disuso a vantaggio delle sole moschee. A Prizren, in ispecie, la sola vera tourist attraction è ormai la linda casetta in cui nacque nel 1878 l’omonima Lega, fautrice infaticabile delle aspirazioni territoriali del popolo albanese nel secolo dei lunghi coltelli.
Potrebbe sembrare pedante, in mezzo allo sfacelo sociale, economico e politico di una parte delicatissima dell’Europa, attardarsi in disquisizioni storico-artistiche. Ma chiunque visiti questi luoghi sacri, da Pec a Gracanica, completamente a prescindere dalla loro caratura religiosa, non potrà che rivedere profondamente la sua idea di cosa sia l’arte bizantina, e guardare con occhi diversi al nostro stesso passato, al Battistero di Parma come agli affreschi veneziani di San Zan Degolà, fino a Giotto medesimo; non potrà non rimanere di stucco dinanzi al potenziale figurativo che questi monumenti sprigionano nella penombra dei loro interni, nelle loro absidi malcelate. Non è un caso che proprio in Italia siano sorte associazioni che hanno contribuito in misura essenziale al restauro e alla conservazione dei monumenti in pericolo: ne parlano da diverse angolazioni, e con una profonda consapevolezza della continuità che lega il passato al presente, gli interventi raccolti da Luana Zanella, L’altra guerra del Kosovo. Il patrimonio della cristianità serbo-ortodossa da salvare, CasadeiLibri, Padova 2006.
Pare quasi incredibile, oggi, che nel monastero di Gracanica, là dove il filo spinato proietta le sue spire sulle epigrafi romane del giardino, fino a non molti anni fa si tenessero fianco a fianco, negli stessi giorni, feste ortodosse e sabor dei gitani (i Rom, questa etnia perennamente minoritaria e perennamente in fuga, oggi quasi espunta dalla considerazione pubblica del Kosovo come dell’Occidente, e mal digerita padrona soltanto – ma per quanto ancora? – nei più fatiscenti palazzi di Timisoara o di Costanza): lo testimoniava, già con qualche nostalgia, G. Duijzings, Religion and the Politics of Identity in Kosovo, London 2000, 66-71. Eppure non serve un Kadaré (Tre
canti funebri per il Kosovo, Milano 1999) per ricordare che nella battaglia di Kosovo Polje, qui nel campo che si stende ai miei piedi, quel giorno del 1389 gli Albanesi e i Serbi combatterono insieme, uniti contro la minaccia turca, e insieme persero la speranza di un futuro libero. E non sarebbe servito un antropologo per denunciare come assurda e criminale propaganda il continuo allarme della Chiesa serba di Pec, che subito dopo la morte di Tito gridò al pericolo islamico, al rischio di una jihad su suolo europeo, all’avvento dei “nuovi Turchi” (che sarebbero stati poi gli Albanesi), dando la stura al becero irredentismo incarnatosi suo tempore nelle squadracce di Milosevic. Qui come ovunque (nel Caucaso, per esempio) gli odi etnici, religiosi, razziali, sono stati l’esito di oculate strategie atte a sobillare popoli altrimenti adusi a una qualche convivenza, ma fin troppo proni – nella povertà che li attosca – a incendiarsi per un nome, per una statua, per una bandiera.
Per un paio d’occhi: sui due primi pilastri della miracolosa chiesa di Gracanica (1318-21) si affrontano i ritratti in nobilissime vesti del fondatore, il re serbo Milutin, e di sua moglie Simonida. “I tuoi occhi furono cavati, o immagine divina, / su quel pilastro al cadere della notte. / Sapendo che nessuno avrebbe visto il misfatto / un Albanese col coltello ti privò della vista”: così recitano i versi rabbiosi del poeta serbo Milan Rakic (1876-1938), dedicati agli occhi scalpellati della splendida regina, metafora perfetta di ben altre cecità.
Perché questa è una terra che, più di tante altre, vive di simboli. Il caso ha voluto che a pochi chilometri da qui, da famiglia albanese ma in territorio macedone, nascesse nel 1910 una delle poche icone globali e indiscusse del secolo passato, forse l’unica insieme a Gandhi intoccabile perfino dall’arte di Warhol: Madre Teresa di Calcutta. D’Alema, nel libro citato del ’99, vedeva un lume di speranza nella cittadinanza onoraria di Pristina da poco conferita da Rugova alla suora di Skopje; e oggi a “Nene Teresa”, come la chiamano gli Albanesi che la venerano benché cristiana, è intitolato il boulevard principale di Pristina, fiancheggiato da pacchiane insegne occidentali e da altissimi puzzles fotografici con le effigi degli “spiriti magni” di questa terra, Rugova in testa. Ma in fondo al viale, là dove un minuto bronzo di Teresa è sovrastato da un’imbizzarrita statua equestre di Skanderbeg, eroe albanese (e pure lui cristiano) che nel ‘400 diede il tormento ai Turchi e mai alzò le mani contro gli Slavi, in fondo al viale, dunque, ecco apparire un fitto presidio di reduci dell’UCK, accampati in tenda giorno e notte per reclamare dai loro antichi compagni oggi al potere sussidi e favori che ritengono dovuti. Pochi metri più in là, si mantiene incessante e sempre vivo il ricordo dei centinaia di desaparecidos albanesi della guerra degli anni ’90, le cui foto compongono lunghissime teorie che resistono da anni al caldo asfissiante d’estate e al freddo pungente d’inverno. Che futuro c’è, oggi, per un Kosovo “newborn”, ma così tenacemente legato al passato?
Nel 2005 l’austero finlandese Olli Rehn – che attualmente da commissario agli Affari economici detta legge in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia – era delegato all’Allargamento dell’Unione, e firmò un importante documento dal titolo Un futuro europeo per il Kosovo, che finalizzava un processo avviato nella conferenza di Salonicco del giugno 2003. Da allora, l’unico passo concreto dell’UE per dar séguito ai buoni propositi è stata la creazione della già citata missione EULEX, che appena insediata a Pristina ha pestato i piedi alle altre iniziative internazionali, e si è guadagnata l’odio collettivo degli indigeni per la sua pretesa (sacrosanta, ma utopistica senza un adeguato supporto di intelligence e di hard power) di stabilire un po’ più di ordine e di equità nel Paese, per esempio controllando davvero le frontiere, o organizzando processi veri con giudici non sottoposti a ricatti. La scaramuccia di fine luglio, nello specifico, ha mostrato quanto arduo sia il compito di presidiare un confine riconosciuto e condiviso, e quanto poco credito riscuotano le missioni internazionali (con la sola eccezione della KFOR), indebolite dalla loro stessa indeterminatezza giuridica. Ci si potrebbe chiedere se non sia troppo tardi per rimediare in extremis a quella situazione che Fabio Mini ha sintetizzato così: «per anni l’Europa si è limitata a dare soldi senza poi interessarsi di come venissero spesi, facendo prevalere l’aspetto contabile del controllo su quello sostanziale e politico».
E dunque il futuro europeo per il Kosovo sembra allontanarsi, dal momento che il Paese non è ancora sulla lista bianca di Schengen, e l’Europa, alle prese con gatte perfino più rognose nelle sabbie di Libia, non sa più se e come orientare la sua P(olitica) E(stera) e di S(icurezza) C(omune) (si veda F. Lillocci, La prospettiva europea del Kosovo dopo l’indipendenza, «Studi sull’Oriente Cristiano» 15, 2011, 163-83). Secondo molti, l’ipotesi di un ritocco alle frontiere, con il nord del Paese annesso alla Serbia, avrebbe il merito di porre fine a quell’idea di un Kosovo multi-etnico che lo stesso Rugova (che era Rugova) giudicava «laughable». Soprattutto, ormai i soldi internazionali iniziano a scarseggiare, perfino il finanziamento alla KFOR è in forse (almeno tre importanti partiti, da noi, lo taglierebbero su due piedi), e non si sa per quanto si potrà contare sui dollari dello zio Sam. L’impressione è che Serbi e Albanesi, impegnati da mesi in fatue trattative pregiudicate a fortiori dal mancato riconoscimento reciproco, stiano aspettando proprio l’inizio del ritiro occidentale per tornare a regolare i conti sospesi; che la Turchia, ormai detentrice di una sfera d’influenza alternativa all’UE, stia alla finestra sui territori dominati fino a un secolo fa (e a lei forse meno ostili di un tempo, dopo la prova non brillante offerta dalle opzioni alternative); e che intanto tutti coloro che possono facciano affari d’ogni tipo, spacciando, contrabbandando, espiantando, e soprattutto riciclando i denari sporchi in una forsennata attività edilizia i cui prodotti da quassù, dalla torre di Kosovo Polje, appaiono più evidenti che mai.
Dalle costruzioni – è noto – si capisce buona parte della vicenda di un territorio e del popolo che vi abita. E allora, follow the brick: un’autostrada nuovissima e paesisticamente impagabile ha dimezzato i tempi di percorrenza da Pristina a Tirana, scendendo giù in un baleno dalle montagne a suo tempo presidiate da intere divisioni dell’UCK, e ancor oggi cosparse, dal lato albanese, dei nefandi bunker di Enver Hoxha, vero imperituro monumento alla follia della specie umana.
Al termine delle 3 ore di corsa, appena il terreno s’imbarca verso la piana di Kruja e s’inizia a intravvedere il mare, le gru e le betoniere lasciate a Pristina ritornano, moltiplicate per dieci, per cento. Quasi nessuno, da noi, parla di ciò che sta avvenendo al di là dell’Adriatico, sulla costa albanese da Durazzo a Butrinto, e poi nell’interno, su per strade impossibili (sconsiglio il tragitto Saranda – Berat senza un 4×4), fin nelle corde più intime di posti leggendari, come l’Argirocastro di Kadaré (La città di pietra, 1971). Si sta perpetrando, come mi conferma da Bologna Sandro de Maria, che scava da anni nel Sud e ha cercato in ogni modo di sensibilizzare l’opinione pubblica, uno scempio che non risparmia spiagge e siti archeologici, litorali e patrimoni UNESCO, tutti luoghi di rara bellezza, irrimediabilmente compromessi negli ultimi quindici anni da nugoli di scheletri di cemento che nessuno abiterà, che nessun ipotetico turismo mai popolerà, che garantiscono nell’immediato soltanto, fuori da ogni piano regolatore e da ogni criterio, un modo rapido e sicuro per blanchir i denari del crimine: denari infiniti, convergenti, spietati.
Non stupisce, allora, che il sindaco di Tirana Edi Rama, il pittore visionario che aveva ravvivato di arcobaleni e di accesi colori i casermoni di Hoxha, sia stato disarcionato tramite una camarilla di brogli alle elezioni amministrative del maggio scorso: il potere clientelare di Sali Berisha (quello che governava già al tempo di Striscia la Berisha, quando nel ’91 gli Albanesi sbarcavano a migliaia sulle coste pugliesi e c’era forse ancor meno da ridere) non può tollerare una vera opposizione. Tirana, città contraddittoria come poche nella faglia assurda che separa le Mercedes dai carretti, i lounge bar dai sordidi caffè (consiglio un giro nel quartiere branché di Blloku, o una corsa di taxi dal centro all’aeroporto, intitolato – di nuovo – a “Nene Tereza”): a Tirana si capisce che il Kosovo non vive immerso in un vuoto adiabatico, bien au contraire. Chi riesca a destreggiarsi fra gli eterni lavori di ristrutturazione di piazza Skanderbeg, approdando al Museo Nazionale, passerà sotto lo sterminato mosaico comunista della facciata e si troverà immerso in una mostra dal titolo Amerika për Kosovën / USA for Kosova, dove potrà contemplare, manco a dirlo, l’uniforme di Wesley Clark, il cappello da cowboy di Madeleine Albright (segretario di Stato all’epoca della guerra), le giacchette del primo ambasciatore William Walker, e la costituzione kosovara manoscritta e firmata dai Padri guerriglieri con la medesima solennità di quella americana conservata a Capitol Hill, Washington DC. Del resto, la collezione permanente del Museo (di grande valore) parte dalla Preistoria e giunge alla Resistenza antifascista e antinazista della II guerra mondiale, e i cimeli dei lunghi decenni comunisti sono confinati in un chiuso sottotetto. Anche a Tirana, in pieno centro a pochi passi dalla statua del Partigiano Ignoto, c’è un Avenue George W. Bush.
Perché poi i Balcani sono tutto un principio di azione e reazione, nella costruzione degli edifici e delle identità. Qui, a questa torre affumicata dall’odio nel campo dei merli, sono arrivato direttamente da Skopje, capitale della Macedonia – anzi, pardon, della F(ormer) Y(ugoslavian) R(epublic) O(f) M(acedonia), per non urtare la sensibilità dei Greci che una Macedonia ce l’hanno già, ed è la più grande regione del loro settentrione, con capitale Salonicco: sul nome di questo Stato, dove genti diverse comunicano per lo più in una lingua simillima al bulgaro, le diplomazie si scannano da anni, al momento il più gettonato – in vista di un possibile ingresso in Europa – pare “Macedonia del Nord”, o “Macedonia-Skopje” (come “Congo-Brazzaville”). La FYROM è un Paese che con il Kosovo ha molto in comune, dalla modesta estensione geografica alla diffusa corruzione della classe dirigente, dai sublimi affreschi bizantini al melting pot delle etnie – solo che lì gli Albanesi sono minoranza, e comunque hanno ottenuto adeguate autonomie e tutele grazie alla guerra interna condotta dall’UCK nel 2001. Ebbene, da quassù, da questo monumento all’identità serba, Skopje m’interessa perché costituisce l’epicentro di un fenomeno di creazione di identità collettiva che richiama a gran voce l’attenzione di qualunque storico dell’età contemporanea.
Non parlo dell’identità religiosa, assicurata dalla posticcia casa-museo della beniamina locale, la solita Madre Teresa (l’unico posto dove i turisti fanno la fila), dal culto capillare per san Clemente e i santi Cirillo e Metodio (creatori in Ocrida dell’alfabeto da cui evolverà il cirillico, e dunque padri del Cristianesimo in lingua slava), nonché dalla croce più alta del mondo, che dal 2002 eleva di notte e di giorno i suoi 66 metri sul monte Vodno, conculcando a mezza costa il ben più discreto splendore della chiesetta di Nerezi (XII secolo), la cui Deposizione a fresco sembra la fotocopia (con vari decenni d’anticipo) di quella scoperta nella cripta del Duomo di Siena.
Parlo dell’identità civile e nazionale, che si concentra, com’è naturale, nel luogo-chiave della città, la Piazza principale, oggetto negli ultimi due anni (e ancora in queste settimane) di un programma di abbellimento scultoreo costosissimo quanto stupefacente. Rimangono indietro, ai lati del ponte, i vecchi simulacri dei patrioti della causa macedone, i protagonisti degli attentati di Salonicco del 1903, e il famoso Goce Delcev, ucciso dai Turchi nel 1903, nel cui non lontano Museo, dentro Sveti Spas, si squadernano le carte geografiche dell’inconfessabile – “Makedonija” come maxi-toponimo esteso dal confine albanese ai sobborghi di Sofia, dalle zone gorane del Kosovo fin giù a Salonicco, anzi Solun (perché per tutte le città greche, da Kastorià a Florina a Kozani, è pronto nero su bianco un nome in cirillico).
Ma al centro del proscenio, nel cuore di Piazza Macedonia, non troneggiano gli eroi di ieri o dell’altroieri, e nemmeno i pur ubiqui chioschi con le magliette giallorosse di Pandev (a Tbilisi, anni fa, imperversavano le icone di Kaladze): qui abbagliano da una parte e dall’altra due figure in bianchissimo marmo di Carrara, due figure assise, che rappresentano, l’una, l’imperatore bizantino Giustiniano (VI secolo), nato in un villaggio non lungi da qui, effigiato severo su un soglio che scimmiotta la cattedra ravennate di Massimiano; l’altra, lo zar Samuele (X secolo), che proprio contro i Bizantini rivendicò alla stirpe macedone e bulgara un’effimera autocefalia, prima di essere sconfitto dall’imperatore Basilio II nella tragica battaglia di Belasica del 1014 (famigerata perché i Bizantini vittoriosi cavarono gli occhi a 14.000 prigionieri). Ma a questo dipolo di marmo che unisce Bisanzio e gli Slavi, è sotteso un denominatore comune, che riluce al centro della Piazza, nuovo di zecca e tutto dorato in cima a un’altissima colonna (27m) istoriata come quelle di Roma: Alessandro Magno, a cavallo, col braccio alto a brandire la spada, in perenne memento della grandezza del popolo di Macedonia.
Non conosco altri casi in Europa, dopo il nostro Ventennio, di un culto del passato remoto (2400 anni fa) dal valore così fondativo. Un culto demenziale, ovviamente, perché Alessandro nacque a Pella, centinaia di chilometri più a sud, perché era allievo di Aristotele e fu il massimo araldo della cultura greca nel mondo, rendendosi teoricamente ben più meritevole di statue nei porti del vecchio Occidente dalle indiscutibili radici greco-romane, che non nella capitale di uno staterello bulgarofono che ha sbattuto le sue epigrafi ellenistiche e latine nella sozza penombra di un caravanserraglio cinquecentesco délabré (ma forse proprio per questo uno dei luoghi più poetici del Paese: è il Kurshumli An, appena sotto il Museo Nazionale). Eppure, quello di Alessandro è un culto che si vuole centrale nella coscienza collettiva, teso a rafforzare l’idea della grandeur a detrimento dei vicini già bene attrezzati in materia, teso a fornire un immaginario baricentro comune (divaricato e stravolto fino a intercettare, su quella stessa piazza, l’affermarsi del Cristianesimo e della Slavitudine) alla macedonia di popoli e dialetti che si sgrana tra montagne e villaggi, dai monti Osogovski fin giù al paradiso di Ocrida, dove la Grecia (quella vera) è a un passo. Il tutto mentre il popolo si sente in parte inorgoglito in parte perplesso dinanzi a questi faraonici simulacri, in parte investito di una missione storica in parte dubbioso circa l’opportunità di scavare nuovi solchi, inventati, per tenere a distanza i vicini; e coltiva una nostalgia strisciante, malcelata, paradossale, ironica anzichenò, del maresciallo Tito, che segava le gambe alla libertà ma garantiva a tutti un lavoro o una pensione: a Skopje, il centralissimo ristorante dedicato a lui vale quanto dieci lezioni di geopolitica.
Soffia il vento, sulla torre memoriale di Kosovo Polje, e nell’aria pesante si sono addensate le nubi, da ogni lato. Scendo giù, per le scale anch’esse nel tempo distrutte e restaurate: “meglio non pensarci più; perfino i merli sono scappati”. Scendo giù “prima della pioggia”, come direbbe Milko Manchevski, in quel film dai tristi finali che 17 anni fa commosse Venezia.