La Tav vista dalla Valsusa
Il segretario di un circolo locale del PD risponde a Filippo Zuliani sui cantieri dell'Alta velocità
di Jacopo Suppo
Mi rendo conto che articolare una risposta al pezzo di Filppo Zuliani (I numeri della Tav) così a ridosso degli scontri di Chiomonte sia molto complicato. Come valsusino mi sento indignato per quello che è capitato nei boschi della Maddalena, perché nel manifestare una contrarietà la violenza non deve essere né contemplata, né accettata e perché gli scontri non fanno altro che allontanare ancora di più il merito del problema dal dibattito politico e aumentare l’isolamento in cui la Valsusa si è cacciata.
Detto questo, mi sembra comunque utile fornire un punto di vista differente da quello offerto da Zuliani, provando, proprio come ha fatto lui, a mettere sul piatto non slogan o frasi ideologiche ma dati e fatti. Tralasciando la parte dedicata ai video di Travaglio (per cui anche il sottoscritto non ha grande simpatia) e sulle dichiarazioni sulla legittimità o meno degli appalti, che neanche io condivido, mi vorrei soffermare sui numeri. Numeri che hanno un senso se vengono collocati nella storia ventennale della Tav in Valsusa.
Negli ultimi trent’anni i valsusini hanno sperimentato la realizzazione di molte opere, più o meno “grandi” (l’ultima in ordine di tempo, l’autostrada A32 Torino-Bardonecchia), con risultati finali lontani anni luce da una seria ipotesi di sviluppo “strutturato” dell’economia. Ci tengo anche a dire che la Valsusa non è mai stata “contro” la ferrovia, tant’è che convive da oltre 150 anni con un’importante linea internazionale: ma vista l’assenza di una buona politica infrastrutturale e di sviluppo del territorio e di fronte all’ipotesi di realizzazione di una linea ferroviaria aggiuntiva che avrebbe dovuto limitare i camion sull’autostrada appena costruita, i suoi cittadini e i suoi amministratori hanno cercato di capirne qualcosa di più.
Dal tempo della sua costruzione a oggi, la linea che percorre la Valle di Susa è stata oggetto di molti ammodernamenti che le hanno dato oggi una potenzialità di traffico merci annuale pari a 15 milioni di tonnellate. In pratica però transitano sulla linea circa 6-7 milioni di tonnellate di merci all’anno. In questo contesto, nel 1994 il governo francese e quello italiano costituirono una società chiamata Alpetunnel, incaricandola di studiare la fattibilità della costruzione del nuovo tunnel alpino (lungo oltre 50 km). I due governi sottoscrissero un documento che consegnarono alla società in cui si diceva che, qualora lo studio di fattibilità avesse dato esiti positivi, sarebbe stata proprio Alpetunnel la società incaricata per la costruzione dell’opera. Nonostante questo evidente conflitto d’interessi, Alpetunnel consegnò ai due governi uno studio in cui evidenziava l’inutilità della realizzazione di una nuova linea ferroviaria se l’aumento delle merci da trasportare fosse rimasto invariato e se i governi non avessero messo in atto politiche d’incentivazione per il trasporto su ferro. Nel 2001 Alpetunnel venne chiusa e venne creata la Lyon Turin Ferroviaire
In un primo tempo si pensò alla realizzazione di una nuova linea ad alta velocità, che connettesse la rete francese a quella italiana. Ma le verifiche condotte nella seconda metà degli anni Novanta evidenziarono che il traffico passeggeri, molto scarso, non giustificava la costruzione di nessuna infrastruttura dedicata. Ad oggi infatti, Rfi ha sospeso il traffico passeggeri tra le due città che fino a cinque anni fa era garantito da 4 convogli al giorno. Si passò pertanto all’idea di una linea mista, merci e passeggeri, sulla quale far circolare treni navetta adatti al trasporto camion (la cosiddetta “autostrada ferroviaria”) in grado di sfruttare la saturazione dei valichi stradali, la cosiddetta linea ad alta capacità.
Ma anche qui emersero delle incongruenze tecniche. La rete francese infatti è concepita esclusivamente come rete “ad alta capacità”, cioè destinata al traffico passeggeri. Il trasporto delle merci in Francia dunque, può avvenire solo sulle linee ordinarie.
Questi dati non scoraggiarono i promotori dell’opera che, supportati da una volontà politica by partisan, nel 2005 avviarono le procedure per l’effettuazione delle campagne geognostiche sul territorio interessato dall’ipotetico tracciato. L’accelerazione dei lavori preparatori allo scavo del tunnel di base determinò gli scontri dell’inverno 2005. Per porre fine ad una situazione insostenibile, il Governo decise di istituire un Osservatorio tecnico, incaricato di esaminare le principali criticità evidenziate dagli Enti Locali della Valle di Susa e della cintura metropolitana. I lavori dell’Osservatorio evidenziarono come la linea fosse lungi dall’essere satura e come le capacità della stessa non siano le medesime da Modane a Torino:
– tratta di Alta Valle (da Modane a Bussoleno) a 20-32 milioni di t/anno
– tratta di Bassa Valle (da Bussoleno ad Avigliana) a 18-28 milioni di t/anno
– tratta “metropolitana” (da Avigliana a Torino) a 6-11 milioni di t/anno
Risulta così evidente come i problemi del trasporto merci tra Italia e Francia vadano cercati non in valle, bensì su quello che è stato chiamato “il nodo di Torino”. Una volta avviato il nuovo servizio ad alta capacità, senza interventi massicci di costruzione di nuovi tracciati in città, il nodo rappresenterebbe il principale “collo di bottiglia” per il traffico merci proveniente da Modane e diretto verso Milano. Un altro risultato importante dell’Osservatorio, ampiamente sottovalutato dai media, fu far emergere come i problemi relativi ai sistemi di trasporto non possano essere risolti soltanto realizzando nuove infrastrutture, senza adottare misure normative, economiche, tecnologiche e gestionali, organizzate secondo una politica coerente ed integrata.
I dati esposti sono stati elaborati dall’Osservatorio Tecnico voluto dalla Presidenza del Consiglio in cui i tecnici designati dalla Comunità Montana della valle di Susa hanno sempre avuto un ruolo propositivo. Questi dati non hanno fatto altro che confermare i dubbi nei confronti di un’opera che costerebbe circa 25 miliardi di euro, di cui solo poco più di 600 milioni finanziati dall’Unione Europea, e rimarrebbe una cattedrale nel deserto se la sua realizzazione non fosse accompagnata da una politica chiara che veicoli le merci dal trasporto su gomma a quello su ferro.
Alla luce di questi dati, gli amministratori valsusini elaborarono una proposta tecnica chiamata F.A.R.E. in cui si prospettava una serie d’interventi per migliorare le performance della linea storica, operando “per fasi”, partendo dal nodo di Torino e non dal tunnel. Prima di questo però, chiesero l’inizio di politiche finalizzate al contingentamento del trasporto stradale a favore di quello su ferro. Questa prospettiva, per colpa di equilibri politici interni alle amministrazioni della Valsusa, purtroppo non fu difesa con la necessaria forza e non fu mai presa in seria considerazione dal governo. Un’occasione persa, visto che questa ipotesi aveva trovato un certo consenso anche all’interno dello stesso Osservatorio.
Come avrete notato, in oltre vent’anni i protagonisti della storia dell’alta velocità/capacità sono stati molti. L’unica assente ingiustificata è stata la politica, che non ha saputo dare risposte alle domande legittime di un territorio che ha sempre soltanto chiesto di “contare” all’interno di un percorso che lo vede protagonista. Questa ostinata volontà di non volersi confrontare ha portato a una contrapposizione radicale tra il fronte del SI e quello del NO e ha caricato di significati un problema che, prima ancora che politico, è tecnico. A oggi, dopo vent’anni di discussioni, proclami, commissioni e scontri, in valle non è ancora stata posata una traversina, a dimostrazione che la “strategicità” di questa nuova linea ferroviaria, sbandierata da più parti, è un teorema ancora tutto da dimostrare.
L’unico segnale fattoci pervenire dalla politica in questi ultimi tre anni, sono stati i 300 milioni promessi dal governo per un ipotetico “Piano Strategico per le aree interessate all’alta velocità”. Peccato che quei soldi non siano mai arrivati. La politica dovrebbe incominciare a ragionare non “se” o “come” fare l’opera, ma quali politiche di sviluppo servono all’Italia per potenziare le sue infrastrutture nel rispetto dei territori, utilizzando il denaro pubblico in modo oculato e senza l’utilizzo della forza.