Guida ai referendum abrogativi
Le cose da sapere per votare consapevolmente il 12 e il 13 giugno
di Francesco Costa
Il 12 e il 13 giugno gli elettori italiani saranno chiamati a esprimersi su quattro referendum abrogativi. Due quesiti sono stati proposti dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua Pubblica, due sono stati proposti dall’Italia dei Valori. Si vota dalle 8 alle 22 di domenica e dalle 7 alle 15 di lunedì. Trattandosi di referendum abrogativi, bisogna votare Sì se si vuole cancellare le norme oggetto dei quesiti, mentre votando No le norme rimangono in vigore. Due delle leggi oggetto di referendum sono state modificate nelle scorse settimane e questo ha portato alla riscrittura totale o parziale di due dei quattro quesiti referendari.
Le regole del gioco
Perché l’esito del referendum sia valido, è necessario che partecipi al voto la metà più uno dei cittadini aventi diritto al voto. Negli ultimi quindici anni, nessuno dei 24 referendum abrogativi che si sono tenuti in Italia ha raggiunto il quorum. Il quesito che è andato più vicino al raggiungimento del quorum è stato quello del 18 aprile del 1999 sull’abolizione della quota proporzionale dalla legge elettorale allora vigente: l’affluenza si fermò al 49,6 per cento. Quelli che ci sono andati più lontano sono i più recenti, quelli del 21 e 22 giugno 2009 sulla riforma del Porcellum: l’affluenza si fermò al 23,31 per cento.
Il primo referendum sull’acqua – scheda ROSSA
La situazione
Il primo quesito referendario propone l’abrogazione dell’articolo 23bis del cosiddetto decreto Ronchi. Il tema al centro del decreto non è, come si è detto spesso e impropriamente, la privatizzazione dell’acqua: l’acqua è e rimane in ogni caso un bene pubblico, nel solco di quanto stabilito dall’articolo 144 del D. Lgs 152/06 e dallo stesso decreto Ronchi. Così come l’acqua, anche gli acquedotti sono demaniali. Quello di cui si parla in questo caso è la privatizzazione della gestione dell’acqua o, per meglio dire, dei servizi idrici.
Il compito di assicurare i servizi idrici in Italia è affidato ai Comuni, che per legge devono associarsi in Ambiti Territoriali Ottimali (ATO). Durante quest’anno gli ATO saranno aboliti e sostituiti con dei nuovi soggetti, spetta alle regioni decidere come. Il decreto Ronchi stabilisce che gli ATO debbano affidare i servizi idrici in concessione, tramite gare aperte sia ad aziende pubbliche che ad aziende private, oppure costituire un Partenariato Pubblico Privato (PPP): un’azienda pubblica che selezioni con gara un’azienda privata cui cedere almeno il 40 per cento della società. Il decreto Ronchi, quindi, non privatizza la gestione delle risorse idriche ma stabilisce che queste possano essere affidate, tramite gare, anche ad aziende private. La cessione delle azioni dovrà avvenire entro il 31 dicembre 2011. Le amministrazioni possono comunque chiedere una deroga e affidare la gestione a imprese totalmente pubbliche. Oggi il 5 per cento delle società che gestiscono le risorse idriche è privato, il 36 per cento è a capitale misto con privati in minoranza, la restante parte maggioritaria è in mano alla cosiddetta gestione in house: società pubbliche controllate al 100 per cento dagli enti locali, che hanno anche compiti di indirizzo e controllo.
Se vince il Sì
In caso di vittoria del Sì, gli ATO non sarebbero più obbligati a indire – salvo deroghe – le gare entro il 31 dicembre 2011, come stabilito dal decreto Ronchi, né a cedere ai privati alcune partecipazioni azionarie entro il 2013. L’abrogazione delle norme del decreto Ronchi determinerebbe un vuoto legislativo che sarebbe colmato dal principio della gara a evidenza pubblica, come stabilito dalle norme europee. Questo vuol dire che gli ATO potrebbero ancora cedere ai privati parte delle azioni delle società che gestiscono le risorse idriche, ma senza gli obblighi e gli scatti previsti dal decreto Ronchi. La Corte Costituzionale aveva rigettato un ulteriore quesito che vietava del tutto la cessione ai privati di parte delle azioni delle società che gestiscono le risorse idriche.
Se vince il No
In caso di vittoria del No, gli ATO che non hanno ancora proceduto ad affidamento, o hanno affidato la gestione del servizio idrico a società a totale capitale pubblico, dovranno trasformarsi in società miste con capitale privato almeno al 40 per cento entro il 31 dicembre 2011. Le società miste collocate in Borsa dovranno diminuire la quota di capitale pubblico al 40 per cento entro giugno 2013 e al 30 per cento entro il dicembre 2015.
Le posizioni
Il fronte del Sì sostiene che l’abrogazione delle norme contenute nel decreto Ronchi contrasterebbe la consegna al mercato dei servizi idrici in Italia, evitando speculazioni lucrative su un bene prezioso come l’acqua, e – si legge sul sito del comitato promotore – “riaprirebbe nei territori e in tutto il paese la discussione e il confronto sulla rifondazione di un nuovo modello di pubblico, che può definirsi tale solo se costruito sulla democrazia partecipativa, il controllo democratico e la partecipazione diretta dei lavoratori, dei cittadini e delle comunità locali”.
Chi difende il decreto Ronchi sostiene che queste norme, abolendo il cosiddetto modello in house, realizzano di fatto una liberalizzazione del settore, piuttosto che una privatizzazione, e rendono le società che gestiscono i servizi idrici più responsabili e più indipendenti dalla politica e dalle amministrazioni locali, che spesso le hanno usate come uffici di collocamento.
Il secondo referendum sull’acqua – scheda GIALLA
La situazione
Il secondo quesito referendario propone l’abrogazione del comma 1 dell’art. 154 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», limitatamente alla parte: «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». In sostanza, quella norma stabilisce che la tariffa per l’erogazione dell’acqua sia calcolata prevedendo la remunerazione per il capitale investito dal gestore, fino a un massimo del 7 per cento. Di questa quota fanno parte sia i profitti che gli oneri finanziari derivanti dai prestiti, e la sua riscossione non è collegata a nessun obbligo di reinvestire denaro nel miglioramento della qualità del servizio.
Per legge la tariffa del servizio idrico non comprende il valore dell’acqua, ma solo i costi del servizio. Le tariffe sono decise dagli ATO, cioè dagli stessi Comuni: la legge fissa un tetto massimo oltre il quale non si può andare ma non un tetto minimo. Negli ultimi anni in Italia le tariffe sono salite perché per legge non è più possibile pagare i costi di gestione del servizio con la fiscalità generale, cioè con le tasse, ma solo con le tariffe: nonostante questo, le tariffe dell’acqua in Italia sono comunque tra le più basse in Europa.
Se vince il Sì
In caso di vittoria del Sì, per le società che gestiscono le risorse idriche sarebbe impossibile realizzare profitti dalle tariffe: si tratterebbe, in sostanza, della fine degli investimenti privati nelle società che gestiscono le risorse idriche. Questo implicherebbe progressivamente lo scioglimento delle società miste attualmente operanti sul mercato, la necessità per le società pubbliche di ri-acquistare le quote dei privati e l’obbligo di realizzare investimenti nel settore soltanto con risorse pubbliche e soltanto a fondo perduto.
Se vince il No
In caso di vittoria del No, la legge resterebbe così com’è: i gestori possono realizzare una remunerazione sulle tariffe fino a un massimo del 7 per cento.
Le posizioni
Sia i promotori del quesito che i suoi oppositori sono concordi nel ritenere l’eventuale abrogazione della norma la fine degli investimenti privati nella gestione delle risorse idriche, perché nessun privato investirebbe in un settore dal quale sa di non poter ricavare alcun profitto.
Secondo i sostenitori del Sì questo esito è auspicabile, perché l’acqua è un bene che deve essere “sottratto al mercato” e la possibilità di realizzare profitti sulla sua gestione porterebbe a un aumento delle tariffe, a fronte di nessuna garanzia reale riguardo gli investimenti di cui il settore ha bisogno.
Secondo i sostenitori del No solo i soggetti privati possono garantire gli ingenti investimenti necessari al sistema di gestione delle risorse idriche, dato che i soggetti pubblici non hanno la disponibilità economica per realizzare investimenti a fondo perduto, a meno di scaricarne i costi sulle tariffe o sulle tasse. La conseguenza sarebbe quindi il progressivo peggioramento della qualità del servizio, anche perché per riacquistare le quote cedute ai privati molti Comuni sarebbero costretti a indebitarsi.
Il referendum sull’energia nucleare – scheda GRIGIA
La situazione
L’Italia ha prodotto energia nucleare dal 1963 al 1990. La prima centrale fu costruita a Latina e ultimata nel 1963, la seconda fu costruita a Sessa Aurunca, in Campania, e ultimata nel 1964. La terza centrale fu costruita a Trino, in provincia di Vercelli, e fu ultimata lo stesso anno. La quarta centrale fu costruita a Caorso, in provincia di Piacenza, e fu ultimata nel 1978. La quinta centrale doveva essere costruita a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo, ma il processo fu interrotto dai referendum del 1987 che, a pochi mesi dal disastro di Chernobyl, sancirono l’abbandono dell’energia nucleare da parte dell’Italia. Negli anni si è discusso molto dell’eventualità di un ritorno all’energia nucleare, proposto dai governi di centrodestra. Nel 2008 il governo ha approvato una legge che, nell’ambito di una nuova “Strategia energetica nazionale”, dispone la “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”.
Qui le cose si fanno un po’ più complicate. Poche settimane fa, molto dopo la fine della raccolta firme dei comitati referendari e l’accoglimento del quesito da parte della Corte Costituzionale, il governo italiano ha abrogato le norme oggetto di referendum, nel timore di subire una sconfitta nelle urne dopo l’incidente nucleare a Fukushima. La Corte di Cassazione era chiamata a decidere se tenere o no il referendum e pochi giorni fa ha deciso di sì, riformulando il quesito. Alla luce di quanto deciso dalla Corte di Cassazione, quindi, il quesito referendario fa riferimento ai due atti che hanno abrogato il nucleare e recita così:
Volete voi che siano abrogati i commi 1 e 8 dell’articolo 5 del decreto-legge 31/03/2011 n.34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?
Se il comma 1 parla dell’energia nucleare, il comma 8 in realtà è ben più vago e generale. Dispone, infatti, che il Governo vari una nuova Strategia energetica nazionale, che “individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali”.
In sostanza, questo non è più un referendum sul nucleare bensì sulla Strategia energetica nazionale del Governo: sulla sua stessa esistenza, non sui suoi contenuti.
C’è un’ulteriore complicazione. Gli italiani residenti all’estero, infatti, hanno già votato: hanno ricevuto le schede elettorali a casa, hanno votato e le hanno rispedite. Peccato che hanno votato sulla base della vecchia formulazione del quesito, che poi è quella sulla base della quale erano state raccolte le firme. Non è chiaro cosa succederà ai loro voti, se saranno annullati o ritenuti validi. Non esistono precedenti. Secondo il costituzionalista Michele Ainis, interpellato da Fabio Chiusi per Lettera43, “il male minore sarebbe far rivotare quegli elettori, e aspettare per annunciare il risultato definitivo. Meglio che rischiare di inficiare la validità dell’intero referendum”. La procedura potrebbe durare dei mesi: probabilmente tutti in questo momento si augurano che, in un verso o nell’altro, il risultato dei referendum sia netto abbastanza da non rendere decisivi i voti degli italiani all’estero.
Se vince il Sì
In caso di vittoria del Sì, stando alla lettera del quesito, il Governo non sarebbe autorizzato ad adottare la Strategia energetica nazionale, cioè il piano generale con cui si decidono gli investimenti, le priorità, i settori su cui investire, comprese le energie rinnovabili. Per effetto dell’abrogazione effettuata dal governo, tra l’altro, anche una vittoria del Sì non avrebbe effetti concreti sul fronte dell’energia nucleare ma soltanto effetti simbolici: in ogni caso questo o un altro Governo un giorno o l’altro potrebbero legittimamente introdurre il ricorso all’energia nucleare.
Se vince il No
In caso di vittoria del No, il governo potrebbe adottare la Strategia energetica nazionale. Sul fronte del nucleare non cambierebbe nulla in ogni caso.
Le posizioni
I sostenitori del Sì credono che il passaggio del referendum, al di là del merito del quesito, rappresenterebbe comunque un segnale simbolico forte e inequivocabile, che renderebbe complicato – se non impossibile, nel breve termine – un eventuale nuovo ritorno al nucleare da parte di questo o di un altro governo.
Il fronte dei sostenitori del No è stato praticamente svuotato dalla moratoria al nucleare imposta dal governo: anche i partiti originariamente favorevoli al nucleare oggi hanno deciso di lasciare libertà di coscienza ai propri elettori.
Il referendum sul legittimo impedimento – scheda VERDE CHIARO
La situazione
Il quarto quesito referendario ha come oggetto la legge sul legittimo impedimento. Il 7 aprile del 2010 il Parlamento ha approvato una serie di norme temporanee, della durata di 18 mesi, che permettono al presidente del Consiglio dei ministri e ai ministri di rinviare le udienze dei processi che li riguardano ogni volta che, a causa di un “legittimo impedimento”, non possono parteciparvi. Stando al testo della legge, è lo stesso presidente del Consiglio o ministro a decidere se il suo “impedimento” è “legittimo”, dato che nella definizione stabilita dalla legge rientrano “le attività preparatorie e consequenziali” alle attività istituzionali previste dalla legge, nonché “ogni attività coessenziale alle funzioni di governo”.
Lo scorso 13 gennaio la Corte Costituzionale ha modificato il testo della legge sul legittimo impedimento, abrogandone alcune parti e interpretandone delle altre. Di fatto oggi è il giudice e non l’imputato a decidere se i suoi impegni costituiscono un impedimento alla partecipazione all’udienza. E quindi il giudice può contraddire la volontà dell’imputato, considerando i suoi impegni non adeguati a giustificare lo slittamento di un’udienza e facendo andare avanti i processi. Anche in questo caso, quindi, la legge vigente è diversa da quella per cui erano state raccolte le firme per il referendum. Anche in questo caso è cambiata la formulazione del quesito.
Se vince il Sì
In caso di vittoria del Sì, il vuoto legislativo verrebbe colmato da quanto stabilito dal codice di procedura penale, secondo cui “l’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato che ha manifestato la volontà di comparire”. Di fatto, a quel punto il presidente del Consiglio e i ministri sarebbero trattati come qualsiasi altro cittadino.
Se vince il No
In caso di vittoria del No la legge sul legittimo impedimento resterebbe in vigore così come modificata a gennaio dalla Corte Costituzionale.
Le posizioni
I sostenitori del Sì sostengono che, anche a fronte dell’intervento della Corte Costituzionale, l’abrogazione della legge avrebbe un importante effetto simbolico e politico, perché rappresenterebbe il rigetto popolare di una delle leggi ad personam più contestate dall’opposizione al governo Berlusconi.
Come nel caso dell’energia nucleare, anche il fronte del No è stato quasi del tutto svuotato dall’intervento della Corte Costituzionale. I partiti di governo, promotori della legge oggetto del referendum, non hanno ancora dato indicazioni di voto ai loro elettori.
foto: Roberto Monaldo / LaPresse