La Patagonia, le dighe, ed Enel
Cosa c'è in gioco nel grande progetto idroelettrico contestato in Cile
di Filippomaria Pontani
La Patagonia è proverbialmente lontana, un territorio in capo al mondo, la cui aura mitica è stata consacrata da un libro di culto del 1977 e da viaggiatori leggendari (Roger Caillois, Victoria Ocampo) che hanno scoperto laggiù una dimensione della vita interamente nuova, un modo diverso di concepire il rapporto tra l’uomo e la natura. In questa dinamica, dalla Terra del Fuoco alle Ande, un ruolo centrale è svolto dall’acqua e dalle pecore: non è forse un caso che Chatwin definisse la lingua degli Yaghan nei termini di una rete di navigazione, né che la prima impressione dei turisti moderni sia legata all’onnipresenza degli ovini.
La pecore della Patagonia argentina sono balzate agli onori delle cronache, come molti ricorderanno, per via dell’acquisto nel 1991 da parte del gruppo Benetton di un gigantesco territorio (900mila ettari, ben il 10% del totale) in parte abitato dal popolo amerindio dei Mapuche: tecnicamente, si è trattato dell’acquisizione – consentita da una favorevole legge di Menem – della “Compañia de Tierras Sud Argentino” da parte del gruppo trevigiano “Edizione Holding”. Dinanzi alle veementi proteste degli indigeni, sloggiati a viva forza dai loro territori, e a una mobilitazione internazionale che finì per coinvolgere perfino un Nobel come Perez Esquivel, Luciano Benetton tentò di sanare la controversia regalando alla comunità Mapuche un appezzamento di 7500 ettari (dono poi peraltro rifiutato dall’orgogliosa comunità), incentivando l’allevamento, restaurando aziende e ville, e promuovendo l’occupazione degli abitanti. Nei fatti – secondo alcuni – Benetton sradicava migliaia di persone dalle loro case, stravolgeva le vie di comunicazione e il paesaggio, sfruttava la manodopera a bassissimo costo, musealizzava le popolazioni locali per poter meglio sfruttare i territori in suo possesso, insomma metteva in pratica le consuete dinamiche del colonialismo latifondistico. Sul significato di questa controversa vicenda, che coinvolge i più alti principi del nostro modello di sviluppo – non foss’altro perché l’azienda interessata si presenta da anni come capofila nella difesa del multiculturalismo e dei diritti umani-, la documentazione più ampia è quella offerta da P. Camuffo, United Business of Benetton (un libro anche altrimenti istruttivo sull’evoluzione del gruppo Benetton da medio produttore di maglie in Veneto a multinazionale detentrice di autostrade).
Peraltro la questione è ancora aperta, se è vero che dopo una serie di cause, ricorsi e controversie giudiziarie, nel marzo 2011 un ennesimo tribunale ha dato ragione a Benetton, ingiungendo un’altra volta (come già nel 2002, data d’inizio della fase acuta del conflitto) lo sgombero della comunità mapuche di Santa Rosa, quella più colpita e più attiva nella protesta: nel sito mapuches.org si può vedere come questa lotta contro il gruppo di Ponzano Veneto s’intrecci all’inquietudine per la sorte dei prigionieri politici Mapuche arrestati e rapidamente condannati dal Cile (dunque al di là del confine) sulla base di accuse assai dubbie, e con una disinvolta applicazione della legge anti-terrorismo. Mette appena conto ricordare che anche lì, in Cile, si combatte per le terre: quelle restituite ai Mapuche da Salvador Allende con la sua riforma agraria, e successivamente riassegnate ai latifondisti sotto il regime di Pinochet. Stiamo parlando insomma – molto concretamente – dei diritti fondamentali delle minoranze, no más no menos.
Ma la Patagonia cilena è attuale anche per l’altro motivo di interesse, l’acqua. È di ieri la notizia che la Commissione ambientale della provincia dell’Aysén ha approvato il piano allestito dalla filiale cilena dell’azienda spagnola Endesa e dal gruppo Colbún per la costruzione di un gigantesco sistema di cinque dighe sui fiumi Baker e Pascua, destinato a produrre il 20% del fabbisogno energetico del Paese. Non si tratta, peraltro, del primo tentativo di sfruttare la zona a tal fine: uno precedente della canadese Noranda fu (provvisoriamente?) sventato nel 2003 in seguito alle proteste internazionali. Incuranti di chi trova le grandi dighe “obsolete, strumenti in mano ai governi per accumulare potere, un modo per strappare ai contadini la loro anima”, fonti di “inondazioni, salinità, malattie” (le parole sono di Arundhati Roy), le multinazionali dell’energia hanno individuato nel complesso sistema fluviale della regione di Aysén un mondo ideale per produrre energia tramite la creazione di sbarramenti di enorme portata: il progetto porta il nome beneaugurante di “Hidroaysén“.
Ora, la questione non dovrebbe interessarci solo perché si inserisce all’interno del ristretto gruppo dei più pericolosi stravolgimenti dell’ecosistema planetario, andando a intaccare in un colpo solo i bacini idrografici (che fra l’altro, con il progressivo scioglimento dei ghiacciai, potrebbero creare squilibri improvvisi e inondazioni), la fisionomia del territorio (6000 ettari sommersi, alterazioni irreversibili di flora e fauna, e soprattutto della forestazione), le attività produttive della zona (pesca, allevamento e altri piccoli lavori di una zona poco popolata), il paesaggio (con i prevedibili effetti negativi sul turismo: si tratta in larga misura di zone protette).
Non è a rischio solo la sopravvivenza dell’armadillo peloso (al quale pure uno potrebbe affezionarsi). Il progetto presenta un risvolto metodologico di estrema importanza: in un Paese dove vigono i sistemi di privatizzazione introdotti da Pinochet con l’interessato supporto dei Paesi occidentali, l’acqua di fatto non è contemplata come “bene comune”: il Código de Aguas del 1981 (marginalmente rivisto nel 2005) sancisce apertamente la deregulation nello sfruttamento delle acque, per il quale non si richiedono dettagliati progetti preventivi, si prevedono poche carte e pochi, quasi automatici passaggi di approvazione; non è un caso che sin dagli anni ’80 Endesa Chile (allora pubblica, oggi ormai privata) abbia acquisito per cifre irrisorie i diritti di sfruttamento che ora accampa. La stessa valutazione di impatto ambientale, già due volte rimandata al mittente dagli organismi pubblici (dietro la pressione delle proteste), non è mai stata sottoposta a un voto popolare, a un pubblico esame condiviso, e cozza perfino contro le direttive della Commissione Mondiale sulle dighe: se oggi si tende a ragionare in termini di piccole centrali idroelettriche, di scarso impatto e di portata minore ma più localmente gestibile, non si capisce come si possa approvare un progetto per un sistema gigantesco che produrrà energia a 2300 km di distanza dal luogo in cui tale energia dovrebbe servire (essenzialmente: i giacimenti minerari a nord della capitale, quelli dove si consumò il dramma a lieto fine di quest’inverno), e che comporterà pertanto la costruzione di una lunghissima linea di trasmissione destinata ad attraversare 6 parchi nazionali, e a sconciare ed espropriare migliaia di ettari. Tutte le informazioni essenziali sul tema sono esemplarmente raccolte qui.
A monte della decisione vi sono la cieca fiducia nella crescita esponenziale del fabbisogno energetico del Cile (un Paese che vuole incrementare il suo già sostenuto ritmo di sviluppo), e il mito delle “grandi infrastrutture” che generano sicuri profitti per le grandi imprese internazionali, sicuri guadagni per il cuore economico, ed effetti secondari tutto sommato “tollerabili” per le zone periferiche. Poco importa che, come dimostrato da precisi studi dell’Università di Santiago, le altre fonti energetiche (rinnovabili e non) già programmate in Cile nei prossimi anni siano destinate a coprire abbondantemente (e non in linea teorica) il fabbisogno del Paese. Non si tratta dunque – come mostrano i progetti alternativi allestiti dai comitati di esperti – di semplice difesa dell’arretratezza: lo ribadisce anche uno dei cantori più appassionati di quella terra, Luís Sepúlveda, in una lettera aperta al presidente Piñera, che vale da sola più di molte parole.
Una tappa essenziale in questo gioco (non a caso pianificata con sagacia tramite apposite società di promozione) è stata la ricerca del consenso: chiunque veda il bel documentario di Camilla Martini, o quello dello stesso Sepúlveda e di Diego Meza “Corazón Verde” (presentato a Venezia già nel 2003), può sentire dalla viva voce delle persone (talora timorose di apparire, talaltra francamente indignate, quasi sempre molto consapevoli di ciò che sta per avvenire) quante e quali risorse sono state investite nella regione (a Cochrane, a O’Higgins, a Coyahique) allo scopo di conquistare l’assenso o la non belligeranza delle popolazioni locali: pannelli solari, infrastrutture, sostegno al turismo e alle imprese, finanziamento di attività culturali e di aree verdi etc.; in prospettiva, la promessa di costruire strade, di erigere nuovi quartieri, di ricollocare le famiglie sfollate etc. Anche il via libera della Commissione di ieri è stato in realtà subordinato a una serie di cospicui investimenti di HidroAysén per promuovere il turismo nella zona, per riforestare, per ridurre la bolletta energetica degli abitanti.
Nonostante questo massiccio dispiegamento di strumenti di persuasione, il 61% degli abitanti rimane contrario al progetto, e contro la decisione di l’altroieri sono scoppiate vivaci manifestazioni anche a Santiago e in altre città del Cile. Ma in realtà l’esito è stato blindato per altra via, se è vero che (per non citare che i due casi più lampanti di compromissioni e conflitto d’interessi: ve ne sono in realtà moltissimi) il vicedirettore di HidroAysén è il cognato del presidente Piñera, e il ministro dell’Energia Ricardo Ranieri è stato tra gli ideatori del progetto in questione.
Qui finalmente entriamo in gioco noi, perché – questo è il senso di questo articolo – “la Patagonia è vicina”. Tramite un complesso quanto consueto gioco finanziario, il consorzio Hidroaysén è controllato di fatto da Endesa Chile, dunque dalla sua azionista di maggioranza Endesa, dunque dalla detentrice del 92% di Endesa, che dal 2007 è la nostra Enel. In buona sostanza, pertanto, il progetto delle dighe in Patagonia, benché gestito e finanziato in lingua spagnola, porta ormai il marchio del nostro Paese, il che spiega anche il peso che in Cile si attribuisce alle dichiarazioni di Fulvio Conti, e spiega la mobilitazione che si è verificata nel nostro Paese: una mobilitazione che ha ricevuto in verità ben poco spazio nei media, e praticamente nessuno nella politica, in tutt’altre faccende affaccendata. E questo, si badi, in un momento in cui è di rigore parlare, discutere, dibattere di “sviluppo sostenibile”, di “sostenibilità ambientale”.
«La Patagonia era lenta, ma spaziosa e confortevole, e c’era un decoro materno nel suo lungo grembiule da balia e nel sibilo del suo passo antiquato, nel fruscío molteplice dietro di lei, come di mille strette sottovesti. Era come se non volesse presentarsi al porto con la scoperta bramosia di una giovane creatura». Questa Patagonia non è la regione, ma la nave protagonista dell’omonimo racconto di Henry James. La metafora regge comunque: l’evoluto Occidente, in tutto dimentico di Dersu Uzala, non ha pazienza per le felpate movenze di un universo ancestrale e poco bramoso, e mette in campo i propri giovani giganti economici per ricavare le sue ambitissime risorse. Perché ora i giganti siamo noi.
Ma non era la Patagonia, la terra dei Giganti? Invero fu questo, per secoli, lo stereotipo occidentale degli abitanti di luoghi così lontani da sembrare mitici; fu questa, forse, l’etimologia stessa della parola “patagões” che primamente li designò. Racconta Antonio Pigafetta che quando nel 1520 Magellano e i suoi giunsero sulle coste di quella terra incontrarono un uomo altissimo, così alto che i marinai gli arrivavano alla cintola. A un certo punto, gli dettero uno specchio (Relazione del primo viaggio intorno al mondo, 1524, cap. II): “quando el vide sua figura, grandemente se spaventò, e saltò in dietro”.