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  • Lunedì 4 aprile 2011

Siamo i buoni o i cattivi?

Passato, presente e futuro delle guerre in Libia

di filippo maria pontani

“Breve misura è, per gli uomini, il momento opportuno”.

Così cantava nel 462 a. C. il poeta Pindaro al suo ricco committente, il tiranno libico Arcesilao IV di Cirene (Pitica 4.286). E non immaginava certo che di lì a una ventina d’anni i sudditi del tiranno, per instaurare un nuovo regime democratico, avrebbero colto il momento buono per ribellarsi e disfarsi di lui, gettando la sua testa mozza, le sue vittorie sportive e il prestigio internazionale della sua gloriosa famiglia nel mare davanti a Bengasi, che allora si chiamava Euesperides, la città “del buon Occidente” (Eraclide, Sulle costituzioni 4.17).

Terra facilmente infiammabile, la Cirenaica, come il fior di loto che vi cresce (Teofrasto, Storia delle piante, 4.3.2). Terra infiammata oggi dall'”Alba dell’Odissea” (non “Odissea all’alba”, come malamente si continua a tradurre da noi), alba che nasce nel buon Occidente e che come quelle di Omero non allunga sul mondo le sue dita di rosa (che vogliono dire il mattino fatto), ma indossa il mantello di croco del fioco giorno ancora in lotta con le tenebre. Tanto più oggi è arduo, forse immetodico valutare gli enjeux di questa guerra senza conoscere in chiara luce le forze in campo. Pare sicuro, anche solo prendendo alla lettera la propaganda di Gheddafi, che da due settimane a questa parte i Mirage francesi e i Tomahawk americani abbiano evitato a Bengasi una carneficina annunciata; e questo, sembra, senza bombardare moschee né biblioteche, bensì obiettivi eminentemente militari (che vogliono dire comunque – a scanso di ipocrisie – gli esseri umani che li presidiano). Di per sé, questo solo esito basterebbe a giustificare l’operazione, nata sotto l’ombrello di una risoluzione dell’ONU: quello, per gli uomini, era il momento opportuno.

Ma il ragionamento non taglia del tutto la testa al toro. Comunque andrà a finire il conflitto, le ragioni dei pacifisti raccolti ieri a Roma rimangono fondate, ancorché non bastevoli a motivare l’inazione, come ha polemicamente argomentato giorni fa Giovanni Fontana. Sorvoliamo sul fatto che la coalizione si è mossa in modo scoordinato e litigioso, e che lo stesso raggiungimento degli obiettivi appare incerto, anzi che rimangono incerti e in parte forse inconfessabili i veri scopi di questa missione già iniziata. E dimentichiamo anche che si combatte a beneficio di leaders ribelli i cui progetti sono tutt’altro che palesi, per lo più dei transfughi o dei Carneadi (quello vero, filosofo platonico del III a. C., veniva proprio da Cirene) che il buon Occidente vuole obbligare alla riconoscenza prima ancora che attingano una qualche forma di potere. Il problema di fondo è che in questo quadro la guerra manca di credibilità (se mai una guerra può averne, magari camuffata da operazione di polizia), e perfino chi la difende sconta la malcelata consapevolezza che non sia stata avviata per una nobile causa, bensì per interessi precisi, di segno uguale e contrario rispetto alla Realpolitik degli anni passati.

L’impressione è che questa sia, più che l’alba crocea di un nuovo assetto di principio del diritto internazionale, il tramonto rossosangue (le bombe sono bombe) di errori che nessuno – in Italia e fuori – ha il coraggio, o almeno la bienséance di ammettere, non solo rimpiangendo con lacrime di coccodrillo i lauti onori gratuitamente tributati al dittatore, ma per esempio riesaminando à rebours l’intera politica tenuta verso i Paesi del Maghreb; per esempio, riconoscendo il fallimento, o dimettendosi (non lo si fa per un party, si potrà farlo per avere sbagliato politica nel Mediterraneo?). Certo, s’invoca il gas, il petrolio, tutto ciò di cui abbiamo bisogno nelle nostre case: eppure trovo abbia un che di osceno invocare la Realpolitik dell’energia mentre dall’altro capo del mondo Fukushima ancora contamina e fuma (dopo che peraltro per settimane l’azienda proprietaria, non paga, si è ostinata a tentare di salvarla). Nel gioco grande, quello della diplomazia, come ricorda Serge Halimi in uno scritto lucidissimo, lo sbaglio più grave è stato quello di non responsabilizzare precocemente i Paesi moderati della Lega Araba, che avrebbero dovuto guidare essi stessi la reazione, costituendosi in una credibile istituzione regionale e intervenendo senza che si riaprissero gli eterni traumi delle bombe occidentali. Bombe dall’esito incerto, quand’anche (cosa non sicura) servissero in breve volgere di tempo a rovesciare il tiranno, o ad aizzare contro di lui – come tanti sperano – una congiura di palazzo; perché, come scriveva sempre Pindaro allo stesso Arcesilao (secoli prima di Iraq, Somalia e Afghanistan), «è facile anche per i più deboli scuotere una città, ma rimetterla saldamente al suo posto è impresa difficile, se subito un dio non divenga timoniere di colui che governa» (Pitica 4.272-74).


Perché poi sganciare bombe dall’alto, lo si è ripetuto spesso, è un modo più comodo di fare la guerra: i Greci e i Romani accusavano di viltà i barbari (gli Sciti, i Parti) che combattevano da lontano, con l’arco, e schivavano così il corpo a corpo. E allora: noi siamo i Romani o siamo i barbari? «Quo latius Roma dominetur in orbe» si leggeva sul Palazzo del Littorio nel cuore di Bengasi, a perenne memoria del fatto che noi le orme di Roma le abbiamo già ripercorse, laggiù nelle Sirti, e dovremmo ben sapere di cosa stiamo parlando. Molti commentatori hanno rievocato il centenario perfetto dell’invasione della Libia voluta da Giolitti, che affondò come una lama nel burro del grande malato ottomano; pochi però si sono soffermati su un’altra ricorrenza, forse meno lusinghiera ma non meno significativa. Giusto 80 anni fa la nostra aviazione, «guidata sempre ed ovunque maggiore fosse il pericolo, dall’ardito e quadrato suo Comandante colonnello Lordi» bombardava proprio la Cirenaica per coadiuvare la conquista di Tobruk, la repressione di Kufra, l’annientamento di quei ribelli che nei loro proclami accusavano gli Italiani di «aver dato alle fiamme il Corano ed altri libri religiosi che hanno anche calpestato con i piedi». E allora: chi brucia il Corano, ieri e oggi? e noi, siamo i buoni o i cattivi?

Desta un qualche sconcerto trovarsi, in un testo italiano di settant’anni fa, “dall’altra parte”: leggere lì, sciorinati sotto i nostri occhi, i nomi di quelle medesime piazzeforti che oggi nei bollettini quotidiani delle tv vengono conquistate, perse, riconquistate e riperse dalle truppe come in una guerra d’antan, come fossimo in una partita di Risiko, in una versione di Giulio Cesare o dentro la battaglia della Marna (succede probabilmente lo stesso in Afghanistan, ma nessuno ce lo dice; è successo per anni in Serbia, in Rwanda, ma ce ne siamo curati poco; e così nelle menti di molti giovani oggi la guerra si identifica con la guerriglia o il terrorismo dell’Iraq, della Cecenia o della Palestina, con le mattanze di Gaza o di Tskhinvali, e non con gli scontri alterni, campali e prolungati di milizie). Eppure nelle memorie cirenaiche del generale Rodolfo Graziani, eccole là, le medesime Ajdabiya, Brega, Bengasi, teatri di battaglie, sedi di enormi campi di deportazione per le popolazioni insubordinate.

All’epoca, nell’estate del ’31, i più moderati fra i resistenti libici chiesero aiuto, e invano, proprio alla Lega del Cairo e alla Società delle Nazioni, e pochi giorni prima dell’11 settembre, giorno della sua cattura (la Storia non gioca con le date), il capo della resistenza Omar-al-Mukhtar inviò richieste epistolari di soccorso a vari capi arabi; ma non giunsero mai a destinazione, perché le intercettarono i nostri servizi. E raccontiamola (ricordiamola) tutta: al-Mukhtar e i suoi si erano rivoltati contro il voltafaccia dell’Italia, che con l’avvento del Fascismo aveva fatto carta straccia degli accordi sottoscritti pochi anni prima con le tribù libiche, dove si prevedevano larghe, larghissime autonomie ai locali: il trattato di Acroma del ’17, quello di ar-Regimah del ’20, la “Legge fondamentale per la Tripolitania” siglata solennemente nel ’20 e già obsoleta nel ’22.

La guerra – in questo ha ragione Gino Strada – si previene tramite un lavoro di anni, non si schiva all’ultimo momento. E tutta la comunità internazionale, a cominciare dal Gallo volante d’Oltralpe, ha marciato sulle aperture e le mattane di Gheddafi, e dunque tutti sono corresponsabili del suo prosperare come dittatore. Ma forse alla luce dei precedenti appena ricordati, al governo italiano si sarebbe raccomandata una qualche prudenza prima di firmare un’altra volta, tra cavallerizzi e baciamani, solenni impegni di Stato da contraddire poi in quattro e quattr’otto appena mutato il vento. Degli italiani non ci si può mai fidare, penserà, una volta di più, l’universo mondo. E forse il prossimo attore di Hollywood, nel ricevere al Festival di Venezia la Coppa Volpi per il miglior interprete, verrà informato da qualcuno che quel premio è intitolato proprio al medesimo governatore Giuseppe Volpi di Misurata (sì, fu conte della città oggi assediata) che guidò per conto di Mussolini la prima fase della riscossa romana tra le sabbie di Libia – e che pochi anni dopo, da presidente di Confindustria, si distinse come munifico sponsor e fondatore della Biennale del cinema.

«Una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre»: così Giovanni Pascoli definiva la Libia nel novembre del 1911, nel famigerato discorso tenuto tra i vicoli erti di Barga, che principiava “La grande proletaria si è mossa”. Mentre la nostra più piccola sentinella, vanamente tutelata a prezzo di baciamani e cavallerizzi, viene travolta da eventi più grandi di lei, e mentre noialtri, avanguardia del buon Occidente, siamo impegnati a mostrare il lato più invertebrato del nostro essere Stato (Lampedusa è, etimologicamente, “l’isola dei molluschi”), vorrei ricordare che quell’11 settembre di ottant’anni fa Omar Al-Mukhtar fu catturato dagli invitti Romani in quel di Slonta, o Suluntah, poco lontano da una splendida grotta che le sculture superstiti denunciano come un antico santuario, forse uno di quei luoghi dove la popolazione locale dei Nasamoni faceva ciò che racconta Erodoto (4.172): “per i giuramenti e la divinazione si comportano così: giurano in nome degli uomini che hanno fama di essere più giusti e migliori presso di loro, toccandone le tombe; e vaticinano il futuro recandosi sui sepolcri degli antenati”. E noi, in nome di chi abbiamo giurato? e i nostri antenati, li abbiamo ascoltati davvero?