La riforma universitaria, spiegata bene bene
Undici punti critici commentati, per sapere finalmente di cosa stiamo parlando
di filippomaria pontani
Ieri 2 dicembre 2010 la conferenza dei capigruppo in Senato ha deciso di non calendarizzare la discussione della riforma dell’Università prima del fatidico giorno 14. La decisione, comunque la si pensi, ha degli aspetti positivi: impedisce che un provvedimento così importante venga approvato a tappe forzate da una maggioranza in bilico e ormai largamente screditata; previene l’inevitabile strumentalizzazione del provvedimento stesso in sede di propaganda filogovernativa o sub-elettorale (si tratterebbe invero di uno dei pochi disegni di legge governativi importanti giunti all’approvazione negli ultimi due anni); soprattutto, sottrae una materia così delicata all’inaccettabile ricatto del ministro, subito ripreso da alcuni fedelissimi rettori (“o si approva il testo così com’è o si bloccano i finanziamenti, i concorsi e tutto il sistema”).
È un fatto che la situazione politica confusa e lacerata ha condizionato l’iter parlamentare del ddl ben più pesantemente delle discussioni di merito. Una volta di più, l’Università è diventata ostaggio (o, a seconda dei punti di vista, merce di scambio) delle lotte tra fazioni, una volta di più la dialettica si è ridotta a slogan, a comparsate (non tutte opportunistiche, va detto) dei politici sui tetti, e così la dinamica parlamentare ha finito per mortificare un dibattito che negli atenei, al contrario, si è sviluppato in modo consapevole e costruttivo.
Chi sostiene oggi che i ricercatori e gli studenti in agitazione siano capaci solo di dire dei “niet”, o conducano battaglie corporative, non sa cosa dice, per lo più in quanto non ha partecipato alle assemblee e ai gruppi di discussione che da mesi hanno prodotto e divulgato informazione sulla riforma, mobilitandosi e mobilitando non in virtù d’ideologia ma sulla base di argomenti concreti (io ho esperienza diretta di Venezia, Padova, Pisa, e indiretta di altre sedi: e per questo osservo che stavolta non siamo dinanzi alla consueta protesta stagionale).
Sintetizzare il ddl è difficile perché esso si articola in una tale serie di norme e regolamenti (in larga parte ancora in mente Dei) che, anche ove uscisse tal quale dalle secche del Senato, la sua stessa applicabilità verrebbe meno senza un ulteriore lavoro ministeriale e governativo (tutto romano) di molti mesi – il che, nella situazione politica corrente, pare quasi un’utopia. Anche per questo, lanciamoci nel pericoloso esercizio di esaminare soltanto i punti salienti di questa riforma, i criteri ispiratori che, se il testo dovesse essere approvato in una qualunque forma, difficilmente verrebbero scalfiti.
Cominciamo dagli elementi di sicura novità, con brevi note di commento.
1. Si vuole sottrarre il governo dell’Università a chi vi lavora, introducendo nella cosiddetta governance ampie rappresentanze (nominate dal ministro) delle imprese e di soggetti privati (un 40% del CdA, ma un 40% dal peso specifico alto, poiché si tratta di soggetti economicamente forti), e accentrando molti poteri nelle mani del rettore (dal mandato unico di 6 anni o rinnovabile per 4+4), della nuova figura del “direttore generale” (dai poteri ancora non chiarissimi) e del Consiglio di Amministrazione (a detrimento dei poteri del Senato Accademico, composto per ora di soli professori).
Questa scelta ha almeno tre obiettivi dichiarati:
– quello di “aprire” l’Università al mondo produttivo e del territorio
– quello di accentuare la gestione “manageriale” degli atenei
– quello di togliere potere ai “baroni” che tanto male hanno fatto al sistema negli anni passati.
Sorvoliamo sul fattore ideologico che pervade tutta questa riforma, ovvero la retorica della disistima e del disprezzo nei confronti della classe docente – un giudizio certo non privo di qualche fondamento alla luce delle passate malefatte, ma palesemente gravato da èmpiti punitivi contro l’unica schiera professionale (oltre alla magistratura) riottosa al bonapartismo imperante; un giudizio che d’altronde, portato alle estreme conseguenze, metterebbe in forse la tenuta complessiva del sistema.
Sorvolo anche sugli aspetti più smaccatamente demagogici di questa retorica, come l’obbligo di insegnamento e annessi per 350 ore (che in realtà è già in vigore) e di lavoro per 1500 ore (si quantificheranno le ore di ricerca? si legheranno i docenti alla sedia? si metteranno delle microspie nei computer? si farà loro timbrare il cartellino?): non credo si possa nutrire qualche fiducia nell’efficacia di simili norme per combattere l’assenteismo (che è viceversa un problema vero), o meglio ancora per contrastare i doppi e tripli lavori dei docenti più facoltosi; né so chi possa accogliere queste norme con sollievo, quando è noto che sulle spalle dei docenti (di quelli che lavorano, cioè) è piombato da anni un carico di obblighi burocratici e amministrativi che le sempre più esili segreterie non possono più evadere (con quale beneficio delle strutture, degli studenti, e dei docenti stessi, è facile immaginare): ma di questo nessuno parla, nemmeno la riforma Gelmini.
“L’Università come impresa”: questa grande pensata è così nuova da essere (alla lettera) il titolo di un libro di Gino Martinoli del 1967; chi vada a leggere quelle pagine potrà vedere come perfino una trattazione così orientata (dove si loda il numero chiuso e si parla ripetutamente in termini di “produttività”) non smetta di insistere sul fatto che l’Università non deve essere “professionalizzante”, ma deve rappresentare il luogo della formazione, non una “knowledge factory” (si veda l’analisi della caratura post-fordista di questa deriva in G. Roggero, Intelligenze fuggitive, Roma 2005), non un'”IKEA di Università” (si veda l’omonimo libro di Maurizio Ferraris, Milano 2001), ma un luogo dove il sapere si crei tramite la partecipazione attiva alla ricerca pura. Chi colga in questo mio dire il fumus dell’ideologia rétro potrebbe utilmente considerare – per andare sul concreto e sullo storicamente fondato – se convenga offrire a un’agenzia turistica dei corsi universitari perché formi delle guide a questa o quell’area specifica della città, oppure anche alla GEOX o alla Luxottica dei laboratori universitari per il training di operai specializzati nella produzione di scarpe o di occhiali (la risposta può essere positiva, beninteso: siamo in democrazia).
Ma poi parliamoci chiaro: dov’è da noi il sistema produttivo che freme per investire nell’Università? Come funzioneranno le Fondazioni che dovrebbero gestire gli atenei (i quali abbracciano un sacco di realtà apparentemente “improduttive” come Lettere o Sociologia o perfino Teoria dei numeri), quando non si riesce nemmeno a metter su una Fondazione per il primo sito archeologico d’Italia, e si fatica a trovare gli sponsor per il restauro del Colosseo? Quale industria, in un panorama di assoluto disinteresse degli imprenditori per l’innovazione, e – si badi bene – senza che sia proposta la de-fiscalizzazione degli investimenti in ricerca (come avviene in America), quale industria vorrà veramente rischiare i propri danari nella formazione dei giovani, ove non si tratti, come detto, di finanziamenti mirati a singoli profili lavorativi (peraltro spesso destinati a obsolescere in tempi relativamente ristretti)?
Cosa accadrà nel Mezzogiorno d’Italia (e non solo lì, purtroppo) dove parte del sistema imprenditoriale è affetta da gravi patologie e collusioni? Cosa accadrà di diverso rispetto a quello che abbiamo già avuto modo di sperimentare nelle ASL, i cui consigli di amministrazione sono stati così profumatamente pagati e corrotti? Chi tratterrà i privati “di comprovata esperienza” dall’antica prassi del privatizzare gli utili e socializzare le perdite, come è avvenuto tante altre volte in Italia? Si leggano in proposito le cupe pagine di G. Roggero, La produzione del sapere vivo, Verona 2009.
Risaliamo ancora più a monte: la persona che in Italia ha studiato più da vicino la realtà numerica e gestionale dell’Università è Giuseppe Catalano, che insegna al Politecnico di Milano: ebbene, proprio da lui – in un dibattito svoltosi qualche giorno fa presso la Scuola Normale, all’ombra della Torre occupata – ho appreso che il modello di gestione dell’Università è tecnicamente definibile come “cooperativa di produzione”, in quanto il “management” è eletto dai dipendenti stessi. Non ho competenze in materia, ma alla luce del fatto che i finanziamenti sono (e senz’altro resteranno) prevalentemente di fonte pubblica, e alla luce della speciale natura dell’università come “impresa” produttrice di sapere e non di beni, non posso che condividere la convinzione di Catalano che quello della “cooperativa di produzione” sia un modello di gestione certo imperfetto, ma assai meno imperfetto di tutti gli altri.
Nel concreto, l’unica università italiana con il CdA composto per statuto interamente di membri esterni (Ca’ Foscari di Venezia) non è andata esente, proprio nel 2009, da un grosso buco di bilancio, mostrando che questa strada non è una panacea. Chi voglia capire nel dettaglio le ragioni per cui il modello cooperativo si raccomanda, dovrà leggere quella che a mio parere rimane l’analisi più lucida della realtà presente dell’Università italiana (fatta peraltro da due fisici, dunque non da paludati umanisti), ovvero l’aureo libretto di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, I ricercatori non crescono sugli alberi, Roma-Bari 2010.
Per finire parlando di spirito, di indirizzi a lungo termine: non stupirebbe (è chiaramente tra i massimi desideri dell’ispiratore Giavazzi, ed è anche tra gli auspici di Raffaele Simone, ne L’università dei tre tradimenti, Roma-Bari 2000, 4a ed.) se il prossimo passo, deciso centralmente o più probabilmente indotto come scelta ineludibile a livello locale, fosse un sensibile innalzamento delle tasse universitarie, cosicché finalmente possa esserci giustizia anche da noi, il figlio dell’idraulico evasore possa ottenere la borsa preclusa al figlio del bidello (le mie scuse preventive alle categorie: sono esempi, purtroppo non troppo ficta), e cosicché anche gli studenti italiani possano finalmente sentirsi parte di una comunità, sfoggiare con fierezza le felpe, le spille e le cravatte del loro ateneo, cui finiranno magari di pagare il mutuo tra dieci o vent’anni. Siamo noi la California.
2. Si vuole riorganizzare il sistema universitario sia nel piccolo, diminuendo il numero delle Facoltà o abolendole a vantaggio dei Dipartimenti (cui vengono trasferite in blocco le competenze didattiche, scientifiche e amministrative), sia nel grande, favorendo la fusione e la federazione di Università per fermare il proliferare delle sedi periferiche.
Per anni, in passato, la sostituzione delle Facoltà con i Dipartimenti fu vista come una possibile panacea alla sclerotizzazione del sistema accademico (anche da “estremisti” come O. Cecchi, La laurea del proletario, Milano 1971), finché questo cambiamento fu in parte sancito con la (per altro verso sciagurata) legge 382/1980, la quale però rimase in larga misura inapplicata. Chi vive dentro l’Università sa quali faide e quali giochi di potere si siano scatenati negli ultimi mesi in occasione della riorganizzazione dei Dipartimenti (che è ancora in fieri), e quanto raramente sia stato tenuto presente il criterio della congruità dei singoli progetti scientifici a vantaggio di considerazioni affatto difformi (riusciamo a raggiungere la quota minima di 45 docenti incardinati? quanti rappresentanti ci conviene avere in Senato Accademico? come faremo a mantenere un potere d’indirizzo nella ripartizione delle risorse?).
Ma anche nei casi (e ce ne sono) in cui si è operato sensatamente, fondando i nuovi Dipartimenti su solide basi ideali e scientifiche, rimane il piccolo particolare che nessuno sa come verrà gestito il nuovo assetto della didattica nel momento in cui le vituperate Facoltà non svolgeranno più il loro indispensabile ruolo di coordinamento e raccordo tra settori anche lontani (ciò vale specialmente per le lauree triennali, durante le quali gli studenti affrontano un gran numero di discipline “di base”, talvolta alquanto eterogenee tra loro).
Si dice che si “taglieranno” corsi di laurea improduttivi: ben venga questa razionalizzazione a vantaggio dei corsi fondamentali, ben venga questo ripensamento, dopo che in seguito alla riforma Berlinguer (allegramente ripresa e implementata anche da Moratti e soci) si è assistito per anni alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla progressiva “licealizzazione” del triennio e allo spezzettamento del sapere in discipline spesso variopinte (si vedano i saggi di Beccaria, Magris, Segre, Firpo in: G. L. Beccaria, Tre + due = zero, Milano 2004; e poi ci si stupisce se Luigi Berlinguer, candidato in Veneto alle Europee da un lungimirante PD, non prende nemmeno i voti dei dipendenti del MIUR). Ma la cosa certa è che questo ennesimo riassetto durerà altri anni, provocherà un nuovo terremoto della didattica dopo i 3 o 4 che già hanno afflitto il sistema negli anni 2000, vesserà gli studenti che dovranno districarsi fra norme transitorie e ingarbugliate equivalenze, ed obbligherà molti docenti ad occuparsi in interminabili riunioni e concistori di queste insulse questioni amministrative invece di dedicarsi ai propri studi: è questo che vogliamo?
Infine: accorpiamo, federiamo università. Nulla da eccepire, se si intende razionalizzare. Ma nel disegno Gelmini c’è anche dell’altro: a fronte dell’auspicato sfoltimento delle università pubbliche si equiparano il CEPU e le università telematiche alle Università private riconosciute (come la Bocconi), consentendo loro di accedere a finanziamenti pubblici; si mantengono le Università private sostanzialmente al riparo dai tagli lineari; si continua a foraggiare ampiamente il neonato IIT di Genova (creatura di Tremonti, che ha riempito il CdA di rappresentanti dell’industria e della finanza), mentre non si interviene per rianimare un moribondo CNR (Centro Nazionale delle Ricerche), che è la bruttissima copia del CNRS francese o perfino del CSIC spagnolo, e che negli anni passati è stato ossificato, e ha fagocitato per improvvida scelta una delle punte di eccellenza della fisica italiana (l’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia). Insomma si procede in direzione opposta alla prassi che invale in Germania, dove si premiano le realtà esistenti più valide invece di crearne di nuove inficiando così quelle ben funzionanti. Per non parlare del fatto che da noi le università private si occupano per lo più di diritto ed economia e (con l’eccezione del San Raffaele) non fanno ricerca di base, talché anche questo mito, più volte ribadito in alto loco, dell’università privata linda pinta ed efficiente potrebbe essere ampiamente sottoposto a critica.
Infine un punto importante: circa l’idea che la chiusura dei corsi di laurea con pochi iscritti porti a cospicui risparmi, chiunque lavori nell’Università sa che non è così: risparmi potrebbero venire bensì dalla soppressione di intere sedi, ma sia concesso il beneficio del dubbio sulla reale intenzione del governo (in tempo di federalismo imperante) di contravvenire alla raccomandazione di Aldo Moro, il quale nel 1957 caldeggiava la proliferazione di sedi decentrate, alla luce di “motivi storici e psicologici” (si veda F. Froio, Università e classe politica, Milano 1968).
3. Si vuole creare un nuovo sistema di reclutamento: mantenendo la distinzione fra professori ordinari e professori associati, si mette a esaurimento il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato e lo si rimpiazza con contratti di ricerca a tempo determinato della durata di complessivi 7-8 anni, al termine dei quali il ricercatore potrà sottomettersi a un giudizio di idoneità per accedere a un “listone” nazionale di professori atti al ruolo di associato. Analogo “listone” nazionale di idoneità servirà per chi aspira al ruolo di ordinario. Da questi listoni le singole Università (meglio, i singoli Rettori) potranno poi liberamente scegliere.
Nel concreto per i giovani si sancisce istituzionalmente un precariato di una decina d’anni (gli artifici aggiuntivi possono essere vari: per esempio nella mia università ormai chi si laurea “in tempo” a giugno o a ottobre del quinto anno è costretto ad aspettare per i concorsi di dottorato il marzo dell’anno dopo, cosicché di fatto 3 + 2 = 6). In questi anni la sottomissione del ricercatore a colui che avrà diritto di vita o di morte sulla sua carriera sarà totale. Va infatti ribadito che nella stragrande maggioranza dei casi le carriere – a differenza di quanto avviene in Germania, dove sussiste un esplicito divieto – saranno tutte “interne”, cioè il neo-dottorato verrà assunto “a tempo” nella sua stessa sede, e – giunto ormai verso i 35 anni o più – aspetterà il nutus del suo ordinario di riferimento e le disponibilità finanziarie della sede. Dico “disponibilità finanziarie” perché – a differenza di quanto avviene negli USA, dove si parla di tenure track – l’Università non accantonerà in partenza una quota corrispondente allo stipendio che il ricercatore percepirebbe in caso di idoneità, ma alla fine dei conti sarà libera di dire al sullodato 35enne che lui è tanto bravo e sarebbe anche utile e gradito all’interno del Dipartimento, ma purtroppo i soldi non ci sono. E tanti saluti.Per non parlare di chi ha già servito l’Università come precario negli ultimi 7-8 anni: allo stato (mi segnala Fabio Sabatini da Trento) l’art. 19 del ddl, fissando un limite retroattivo di 10 anni di servizio come dottorando / assegnista / contrattista, impedisce de facto a chi ha lavorato negli atenei, spesso con ottimi risultati, di concorrere ai suddetti posti di ricercatore a tempo determinato (che questi medesimi precari, non godendo ovviamente di quote riservate, possano essere assunti direttamente come associati pare un’eventualità quanto mai remota): il tradimento delle speranze di una generazione.
Si sancirà così il ritorno a una situazione forse ancor più lamentevole della presente, quella cioè di un’università con pochi professori (non più “sacralizzati”, come all’epoca, ma sottoposti all’obbligo del cartellino e all’alea dello stipendio centralizzato) e molti precari (eredi di quelle antiche figure che furono i “professori incaricati”, gli “assistenti volontari”, i “liberi docenti”): chi voglia avere un panorama di questo buon tempo antico (e nel contempo constatare la perennità di tanti malanni del sistema) può leggere lo sconsolato pamphlet di A. Sensini, Il professore d’università, Firenze 1963, riferito peraltro a un’epoca in cui Pisa aveva 10mila studenti e Roma 50mila (circa 1/4 rispetto ad oggi). Va da sé che, come già Sensini osservava, nelle materie che si prestano a carriere d’altro tipo, gli studenti più brillanti ben presto abbandoneranno la ricerca per dedicarsi a ben più profittevoli e stabili impieghi nel settore privato; mentre i più motivati e vocati al sapere continueranno a scappare dall’Italia ancor più di quanto già non facciano.
È singolare che un provvedimento siffatto venga presentato come un’insidia al potere dei baroni; tanto più che proprio grazie all’intervento del ministro Gelmini ormai nei concorsi hanno voce in capitolo i soli ordinari (niente più associati né ricercatori: sono ricattabili, si dice), e nella benemerita prassi del listone si configura addirittura la libertà assoluta per le singole università (cioè per i Rettori e i loro consigliori e grandi elettori) di scegliere (o non scegliere) da un elenco indifferenziato, ovvero privo di obbligo di graduatoria: a quali abusi si esponga un tale sistema – senza nemmeno bisogno di truccare le carte, ché di fatto i concorsi scompaiono e dopo un semplice giudizio di idoneità ognuno si prende chi gli pare – è fin troppo chiaro per meritare ulteriore commento.
È altresì singolare che nel dibattito politico non abbia più cittadinanza un tema che negli anni ’50 e ’60 echeggiò più volte nell’aula di Montecitorio (divenne un’acuta proposta di legge ad opera del ministro Fiorentino Sullo nel 1969, prima che oscure vicende irpine lo costringessero alle dimissioni: cfr. F. Froio, Università: mafia e potere, Firenze 1973): il ruolo del docente unico (o “ruolo unico della docenza”), che eliminando i gradi e i concorsi intermedi, eliminerebbe anche alla radice i rapporti di soggezione e dipendenza reciproca; ecco un’idea (da discutere e perfezionare, per carità) per inficiare sul serio il potere dei “baroni”.
4. Infine, si vuole porre un freno al nepotismo e alla corruttela del sistema, eliminando la possibilità di parentele (fino al quarto grado) tra i concorrenti a un posto e i membri del Dipartimento che lo bandisce.
Su questa norma non si può che essere d’accordo, infatti si constata l’unanimità fra le forze politiche. Che essa risolva il problema del nepotismo, come il ministro e i suoi scherani sbandierano ai quattro venti, è però tutt’altro che probabile: nel momento in cui la cooptazione avverrà tramite “listone”, sarà assai semplice (e perfettamente legale) per uno zio di Bari assumere un figlio di Milano e per un amante di Milano assumere in cambio un nipote di Bari.
E poi c’è da dire che il nepotismo è solo uno dei mali del reclutamento: ben più importante è l’operato dei baroni in favore dei loro allievi, a loro non legati da vincoli di parentela bensì da imperituri sentimenti di gratitudine e devozione da “uomo ligio”: è su questo meccanismo che s’impernia la mafia dell’Università, la guerra per bande cui in molti settori disciplinari (non in tutti, a onor del vero) abbiamo assistito da anni, e che ha chiuso le porte a tanti studiosi meritevoli, o ha rallentato la loro carriera in maniera inaccettabile. Come mostrano tante denunce e tanti libri recenti, in questa pratica si sono distinti intellettuali di ogni schieramento, docenti illustri e mezze calze, senza differenze di colore politico o di prestigio: è proprio questo fatto, se vogliamo, che rende la situazione particolarmente grigia, poiché non si sa da dove cominciare.
In sintesi: la norma proposta è senz’altro sensata, ma chi si illude che dei semplici meccanismi legislativi come questo pongano un freno alla corruzione del sistema universitario s’illude: “intra animum medendum”, come diceva Concetto Marchesi.
Poi nel disegno Gelmini ci sono le mezze novità, ovvero dei provvedimenti che si limitano a riprendere orientamenti o norme già partoriti da precedenti ministri, e ora spacciati per avanzamenti rivoluzionari.
5. La valutazione dei docenti.
Questo è un tema importante, non tanto nell’accezione demagogica degli “studenti che giudicano i docenti” (simili valutazioni esistono già oggi in ogni università, e sono tenute in gran conto anche se – ragionevolmente – non entrano in ballo per la fissazione del livello stipendiale né hanno potere vincolante per lo sviluppo dei curricula), quanto perché solo tramite la valutazione (ama ripeterlo il succitato Giuseppe Catalano, che a questi temi ha dedicato molti studi) si riuscirà forse a far partire quel quid che manca nei nostri atenei: la competizione. Partiamo da qui: si può legittimamente sostenere che l’autonomia delle università non abbia molto senso se non si instaura una dinamica di competizione fra i diversi atenei, nell’ambito della capacità di gestire le risorse, del potenziale di attrazione di studenti, e dell’eccellenza dei risultati raggiunti; sulla base di questo tipo di parametri si dovrebbe poi attribuire o non attribuire anno dopo anno una quota sempre crescente delle risorse pubbliche (anche quelle del Fondo di Finanziamento Ordinario), in modo da premiare il merito con dobloni sonanti.
Non è un caso che la valutazione sia diventata una sorta di “mantra”, spesso in concomitanza con una serie di mots d’ordre di ingegneria gestionale espressi in lingua inglese con il sicuro effetto di renderli più oscuri (si veda A. Paletta, Il governo dell’Università. Tra competizione e accountability, Bologna 2004). E non è un caso che una nuova agenzia per la valutazione universitaria (di nome ANVUR) sia stata varata già dal ministro Mussi, e venga ora rilanciata dalla Gelmini dopo una serie di problemi burocratici che ne hanno procrastinato l’avvio.
Ma quali problemi? Anzitutto il problema (essenziale, a pensarci bene) di scegliere i valutatori: le procedure per le nomine del consiglio direttivo dell’ANVUR (destinato a rimanere in carica per 4 anni) sono state molto complicate – per dare un’idea, le prime designazioni dei membri del collegio ristretto spettano tra gli altri ai segretari generali dell’OCSE e dello European Research Council, nonché al Presidente dell’Accademia dei Lincei. Il problema è infatti che i valutatori devono essere a un tempo competenti e non compromessi in senso positivo o negativo con i valutati o con i loro progetti; e questo in un Paese come il nostro, dove la mafia accademica ha raggiunto vertici mondiali, è difficilissimo. Prova ne sia che il ministro della Salute ha recentemente affidato la valutazione dei progetti di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità al National Institute of Health degli Stati Uniti.
Questa difficoltà, almeno in queste proporzioni, è tutta italiana, e si somma alla difficoltà strutturale che concerne l’inevitabile differenza fra i processi valutativi delle discipline scientifiche e di quelle umanistiche (strumenti come l'”indice H” servono benissimo per fisici o medici, ma rischiano di essere assai distorsivi per giuristi o letterati); e all’altra questione strutturale dell’unità che si vuole misurare: tutti gli studi mostrano che è più sensato valutare comparativamente i Dipartimenti invece che le Facoltà o gli Atenei: ma come paragonare un dipartimento di 120 studiosi a uno di 45? Come paragonare un Dipartimento di “Studi Umanistici” a un dipartimento di “Storia e archeologia”?
Come ognun vede, quanta più importanza si assegna ai processi di valutazione (perfino, come si ventila nel disegno di legge Gelmini, per quanto riguarda l’attribuzione degli scatti stipendiali di ricercatori e docenti), tanto più elevato diventa il rischio che questi ultimi vengano gestiti male, o peggio branditi come armi improprie per consumare vendette o ricatti. Si badi: questo non è affatto un buon motivo per rifiutare la valutazione en bloc, ma vorrebbe rappresentare un caveat contro gli entusiasmi (sinceri o pelosi) nei confronti di questo strumento come panacea automatica dei mali del sistema. Adelante, Pedro, con juicio. E, soprattutto, con risorse, perché una valutazione che non porta a premi o incentivi (con denaro fresco) non ha ragion d’essere.
6. La quiescenza obbligatoria dei professori a 70 anni (68 per gli associati), due in meno di ora.
Questa strada, lodevolissima, era stata imboccata già da Fabio Mussi, che nel precedente governo aveva abolito il fuori ruolo (oltre i 72 anni), ed è stata meritoriamente proseguita dalla Gelmini che ha già consentito (e ora impone) agli atenei di non concedere il consueto prolungamento di due anni oltre i 70. Nell’un caso come nell’altro le norme anti-aging si sono scontrate con ricorsi, opposizioni legali e stracciamento di vesti da parte di docenti anziani abbarbicati al loro seggio.
La direzione è certamente quella giusta (in Germania i docenti vanno in pensione a 65 anni, e nessuno si scandalizza), ma anche prima di aspettarne i risultati si dovrebbe mettere l’accento su altre questioni correlate: per esempio si potrebbe impedire ai docenti negli ultimi 5 anni del loro servizio di aver parola sulle assunzioni dei nuovi; o per esempio si potrebbe impedire alle Facoltà di richiamare alla docenza tramite appositi contratti (gratuiti o poco pagati: la differenza è quasi irrilevante, anche se non sul piano simbolico) i professori appena andati in pensione – che è poi quello che avviene regolarmente in molte Facoltà, con tanti saluti alle prospettive di arruolamento dei giovani (del resto, se non si ricorresse a questo artificio molti corsi sparirebbero tout court).
Del resto, se non si ricorresse a questo artificio molti corsi sparirebbero tout court.
Qui viene il punto: che questo provvedimento si inserisca in un coerente programma di svecchiamento del sistema universitario è sicuramente falso: già nel ’94 Raffaele Simone scriveva che “il ricambio naturale sarà molto lento per i prossimi 20 anni [dal 1980, NdR] e sarà seguito da un brusco svuotamento degli effettivi verso il 2010”. Ci siamo: l’esodo sta avvenendo, e il picco dell’età media di chi lavora in università si sta spostando sempre più verso i 55 (!); il vincolo di bilancio che impone di sostituire solo il 20% degli uscenti impedisce di alterare sensibilmente questa media, e si traduce in una riduzione cospicua dell’offerta didattica (non solo di quella superflua, ahimè), e nella mortificazione della mia generazione e di molte altre a venire.
7. Gli incentivi al rientro dei cervelli dall’estero.
Si tratta di una norma in vigore, sotto varie forme, da molti anni ormai, e non c’è dubbio che la recente istituzione di un programma “Levi Montalcini” per favorire il rientro di una trentina di giovani meritevoli sia stata un successo, anche in grazia delle modalità di valutazione scelte, assolutamente trasparenti.
Non voglio insistere – sarebbe puerile – sul fatto che si tratta di una goccia nel mare. Il vero problema è duplice: da un lato bisogna stabilire se siamo assolutamente sicuri che un ricercatore che è stato all’estero (e qui le equivalenze di posizione sono sempre molto tricky) è sempre e comunque migliore di uno che è rimasto in Italia, al punto da meritare corsie preferenziali in ogni caso; dall’altro bisogna capire cosa vogliamo fare di chi torna, perché questi ricercatori arrivano (giustamente) con contratti a termine, e al termine del termine si trovano dinanzi ai medesimi muri che riguardano tutti gli altri, e sono spesso indotti a tornare all’estero da dove sono venuti.
8. La riduzione dei settori scientifico-disciplinari.
Questa tendenza, anch’essa avviata da Mussi, ha il sacrosanto obiettivo di sanare uno spezzettamento delle discipline che non ha riscontro in altri Paesi, e che ha chiaramente rappresentato uno strumento del clientelismo e della proliferazione insensata di cui sopra. Ma siamo alle solite: uno sguardo ai nuovi cosiddetti “macrosettori” elaborati dal Consiglio Universitario Nazionale (di nuovo dunque a livello centrale) in parte su parere delle varie Consulte, mostra come le nuove aggregazioni disciplinari rechino in più d’un caso le tracce di segmentazioni condotte sulla base dei potentati baronali anziché di precisi progetti. Ciò beninteso potrebbe cambiare negli anni, ma un vero beneficio non si avrà prima di un serio mutamento nell’etica individuale di chi lavora all’interno del sistema.
Infine nel ddl Gelmini, o meglio nella propaganda collegata, ci sono alcune falsità più o meno evidenti:
9. Si parla di un sistema meritocratico.
Che la meritocrazia finisca per prevalere nel processo di reclutamento (di cui sopra al punto 2) è tutto da dimostrare nella prassi, ma di assodato per ora ci sono soltanto drastici tagli ai fondi per le borse di studio destinate ai capaci e meritevoli; tagli la cui realtà nessuno ha potuto contestare, e che si propagheranno esponenzialmente negli anni a venire. Per onestà di cronaca, va detto che questo dato contraddice la prassi seguita fin qui dalla stessa Gelmini, la quale viceversa nel 2009 aveva aumentato i fondi per il diritto allo studio perfino più di quanto non avessero fatto Mussi e Prodi.
10. Si parla di un rafforzamento dell’autonomia delle singole Università.
Qualunque sia il giudizio che si dà dell’autonomia fin qui realizzata, è certo che non vanno in questa direzione né la messe di regolamenti ministeriali (oltre 100) cui – posto che vengano mai scritti – tutte le sedi dovranno uniformarsi, né il saldo controllo dei finanziamenti da parte del Ministero dell’Economia (il quale, non fosse intervenuto un emendamento in limine, avrebbe avuto addirittura la possibilità di commissariare gli Atenei disastrati).
11) Si parla di un miliardo di euro come “denaro fresco” investito nell’Università.
In realtà gli 800 milioni sganciati da Tremonti serviranno esclusivamente a ripianare una parte dei tagli previsti per il Fondo di Finanziamento Ordinario di quest’anno; l’anno prossimo i tagli messi in bilancio dalla legge del 2009 saranno ben più sostanziosi (circa un 20%), e nessuno sa se o come verranno compensati.
Pertanto, pare assai difficile che questi fondi vengano destinati a nuovi investimenti nella ricerca oppure alla promozione (tramite concorso riservato) di un certo numero di ricercatori ad associati (si parla di 1500 posti, ma in realtà già si sa che manca la copertura): un provvedimento, questo del concorso riservato, che sarebbe peraltro comunque sciagurato, fonte sicura di nuove corruttele, e destinato in realtà primariamente a incrinare il fronte fin qui alquanto compatto dei ricercatori a tempo indeterminato (la Rete 29 Aprile), la gran parte dei quali è impegnata in una protesta non corporativa contro il ddl che sancisce de facto la loro fine giuridica.
Questi sono solo alcuni dei punti critici di questa riforma: altre osservazioni le avevo messe in campo in un articolo di due settimane fa. Ma tutte queste parole non bastano a dare la vera misura del problema, perché è chiaro a tutti che l’Università si inserisce (a monte) in un sistema produttivo sempre più bloccato e in un settore pubblico che, nonostante i proclami brunettiani, non dà né riceve fiducia alcuna; ed è altrettanto palese che l’Università si inserisce (a valle) in un sistema dell’istruzione che ha comportato la progressiva perdita di ruolo e di autorità – per colpa di diverse maggioranze e di diversi governi – della scuola secondaria superiore, la quale fornisce all’Università gli studenti e dovrebbe in teoria assorbire tra i propri ranghi docenti non pochi dei laureati che l’Università produce. Ma di questo problema, che tanto compromette il futuro del nostro Paese, bisognerà parlare un’altra volta, con più calma.