Fare la rivoluzione a novembre, a Firenze
"Abbiamo pensato di non nasconderci", scrive Matteo Renzi presentando l'adunata ribelle della settimana prossima
di Matteo Renzi
Fare la rivoluzione è sempre esaltante e pericoloso. Fare la rivoluzione a novembre può sembrare provocatorio e indelicato. Fare la rivoluzione a Firenze è suggestivo e persino romantico. Ma al di là di tutto, il problema è che fare la rivoluzione, oggi, è un imperativo morale irrinunciabile. Nessuna esagerazione, sia chiaro. Siamo gente di campagna, abituata al senso delle proporzioni: sappiamo non prenderci troppo sul serio.
Ma sappiamo anche che l’Italia di questi giorni è un paese impantanato, avvitato su se stesso, imputridito in vicende bieche e incapace di declinare al futuro il verbo sognare, il verbo sperare, il verbo pensare. L’Italia ha caratteristiche straordinarie, uniche nel mondo, un Paese portatore sano di entusiasmo e di intelligenze, di passione e di energia. Eppure passiamo il tempo inseguendo le società offshore che comprano case all’estero, viviamo di dichiarazioni banali e vuote di chi sguazza nell’acquario della politicuccia romana, aspettiamo le riforme gattopardesche che mortificano la repubblica democratica fondata sul lavoro e affondata sulla rendita. I problemi sono gli stessi da vent’anni: una pressione fiscale allucinante a fronte di servizi non sempre all’altezza della pubblica amministrazione, la scuola e l’università pensate più in funzione dei posti da occupare che dei cervelli da far funzionare, il grande tema della giustizia affrontato solo per risolvere il problema di uno (indovina chi) e non di tutti, cittadini e aziende. E potremmo continuare con l’ambiente, la tecnologia, il lavoro, l’innovazione, i beni culturali e compagnia cantante fino ad arrivare alle questioni più spicciole come dimezzare indennità e numero dei parlamentari, risposta immediata e chiara al torrente in piena dell’antipolitica.
Sulle questioni di merito discuteremo dal 5 al 7 novembre alla stazione Leopolda. Quello che poniamo da subito è un problema di metodo: nel mondo civile i partiti rimangono sempre gli stessi, ma i leaders cambiano. Se perdono le elezioni i dirigenti politici si fanno una fondazione, scrivono un libro, danno suggerimenti, ma vanno a casa. Qualcuno di loro è talmente bravo che dopo dieci anni di governo va a casa direttamente senza bisogno di perdere le elezioni. I partiti restano, i leaders cambiano, i problemi si affrontano.
Da noi è tutto alla rovescia: i dirigenti politici si fanno le fondazioni, scrivono libri, danno consigli ma rimangono lì, sempre, tenacemente abbarbicati allo strapuntino della seggiola. Non si schiodano, guai a chi li tocca. Si cambiano i partiti, si cambia il nome dei partiti, ma i leaders sono gli stessi, con le solite facce, le solite idee, il solito linguaggio. Con un gruppo di amici abbiamo pensato di non nasconderci. Di non restare in silenzio, quatti quatti ad aspettare che il grande orologio biologico della cooptazione faccia scattare il nostro turno. Ci siamo buttati nella mischia con la lealtà di chi non ha niente da chiedere per sé, se non il rispetto per le proprie idee. Ci hanno detto che siamo sfasciacarrozze e pierini, giovanotti e maleducati: noi abbiamo solo chiesto il rispetto di quella norma maleducata dello Statuto del Pd che dice che dopo tre mandati si va a casa. Vorrà dire che lo chiederemo per piacere “Scusi, cortesemente, potrebbe rispettare le regole e lasciare quello scranno dopo qualche decennio?”
Non abbiamo grandi ambizioni, insomma. Vogliamo solo fare la rivoluzione. E vogliamo farla con il sorriso sulle labbra di chi vuole bene alla politica e si ritiene umiliato quando ne calpestano la dignità. Meritiamo di più dello squallore di questi anni: tocca anche a noi provare a cambiare la rotta, mettendoci faccia e cuore.