Domande da porci
L'intervento in difesa dei romani dagli insulti di Bossi è la più forte presa di posizione del PD sulle minoranze etniche
di Filippomaria Pontani
Il cabotaggio del momento politico italiano è ben rappresentato dalla querelle su SPQR. Com’è noto, il Partito Democratico ha presentato una mozione di sfiducia individuale contro il ministro Bossi per aver sciolto il vetusto acronimo con le parole “Sono Porci Questi Romani”, salvo poi ritirare la mozione dopo aver ricevuto, giorni dopo, le bofonchiate scuse del ministro, e proclamare che con questa retromarcia si sarebbe raggiunto un importante risultato.
Non voglio perder tempo a infierire sulle ragioni di questa singolare strategia (sussisteva la concreta possibilità che cadesse il governo, e si è preferito scongiurare questo rischio per paura? si è capito viceversa ex post che sarebbe stato un buco dell’acqua? mi agita il terrore di dover dar ragione a La Russa), né stupire dinanzi alla selezione dell’obietto della mozione: la battuta di Bossi io l’ho udita varie volte, detta per ridere con aria mite e bonaria, in bocca a mio nonno, che era nato in provincia di Roma, lavorava nella capitale ed era un acceso tifoso giallorosso; non altrettanto potrei dire degli appelli a imbracciare i fucili, a parlare dialetto a scuola o a cacciare gli stranieri.
Dunque voglio macchiarmi, come spesso soglio fare, di benaltrismo. Nello stesso giorno della battuta, lunedì, il ministro dell’Interno – il numero due del partito di Bossi – dichiarava di aderire in toto e in actu alla linea francese sull’immigrazione, e in una conferenza stampa a Milano rovesciava il piano del sindaco (che, sia detto ad abundantiam, è una donna di destra) per agevolare la sistemazione dei rom cacciati dal campo di via Triboniano (nomina sunt consequentia rerum: Triboniano, vissuto nel VI secolo, è stato uno dei più grandi giuristi della storia); un divisamento, si badi, dal valore più ideologico che non pratico, giacché si tratta di sole 25 famiglie. Dinanzi a questo provvedimento, poche voci contrarie (e quasi tutte interessate alla bega politica fra Maroni e la Moratti), nessuna mozione parlamentare. Poca lena nell’evocare non dico questioni di principio (che evidentemente, a parere di molti dirigenti del PD, fanno perdere voti), sibbene concrete soluzioni offerte a problemi analoghi in città diversamente amministrate: per esempio la lungimirante (anche se faticosa e inizialmente controversa) politica del sindaco di Padova Flavio Zanonato, che solo i meno accorti hanno tacciato di razzismo dopo l’erezione di un muro temporaneo volto solo a bonificare un’area compromessa dal crimine per poter poi meglio ridistribuire i tanti immigrati onesti in altre zone della città; o, per restare ai rom, il caso dei Sinti di Mestre, per il cui villaggio Massimo Cacciari ha combattuto battaglie di civiltà trovando il sostegno della popolazione anche dinanzi ai veementi assalti (anche prettamente fisici, garantisco) della Lega. Ma no, pare che indicare politiche di accoglienza più equilibrate sia più difficile che stigmatizzare una battuta.
Nello stesso lunedì è accaduto anche un altro fatto, che in altre circostanze (se cioè avesse interessato degli Italiani) avrebbe ricevuto ben altro interesse: una coppia cinese è morta in un capannone di Muggiò, a pochi chilometri da Milano. Anche di questo sui quotidiani nazionali si è saputo poco o nulla: eppure si tratta con ogni evidenza di un evento che non riguarda soltanto l’annosa questione della sicurezza sul lavoro, ma anche quella dell’immigrazione (quanti sono le morti bianche di muratori africani o romeni?), e in particolare di quella cinese. Nella latitanza del governo sul tema (al più, anche qui, si ripropongono stereotipi d’ostilità), e pur dinanzi al montare di un fenomeno che assume proporzioni inusitate (ha corroso dalle fondamenta una delle nostre più antiche città, Prato), il Partito Democratico non ritiene di prendere spunto da questa tragedia per lanciare con evidenza un progetto politico alternativo, capace di trarre giovamento da chi su questi temi ha lavorato: assai istruttiva sarebbe in proposito la visione di un bel documentario del sinologo e regista Sergio Basso, “Giallo a Milano” (2009), dove si affrontano le radici di via Paolo Sarpi e si distilla in una serie di brevi folgoranti quadri l’essenza umana dei Cinesi immigrati in Lombardia (c’è anche, e ben descritta, una coppia che dorme in fabbrica come quella di Muggiò).
Poco consola rilevare che il balbettío su certi temi è mal comune: senza rivangare il caso francese (che però suscita un’indignazione pubblica ben più robusta che da noi), perfino a Toronto, metropoli civilissima di un Paese fondato sul mosaico culturale (basti percorrere la chilometrica e linda Spadina Avenue per rendersi conto di come il paesaggio umano e l’architettura cambino ogni tre blocks), il candidato sindaco con più chances di elezione predica la distinzione fra i gruppi etnici e ripudia l’idea di accogliere nuovi Canadesi; e i suoi avversari (tra i quali spiccano un Joe Pantalone e un Rocco Rossi) faticano ad esporre con persuasività una visione alternativa. Eppure, proprio dal Canada viene una storia bellissima: il 24 settembre è arrivata a Inuvik, in mezzo ai ghiacci dei territori del Nord-Ovest, una moschea trainata da una chiatta proveniente da Winnipeg e destinata alla piccola comunità musulmana locale (“This is what Canada is all about”, dice l’organizzatore del trasporto). Musulmani che si fondono a Inuit: chi avrà il coraggio di farne una mozione di sfiducia a Calderoli?
Se anche ora siamo in un diverso momento storico, in cui è di moda prendere a schioppettate i blacks di Rosarno e sgomberare i “Sinti dalla selvaggia voce” (Omero, Odissea 8, 294), forse tra i compiti di un grande partito dovrebbe entrare quello di indicare e ribadire un futuro condiviso (nella politica italiana l’unico a farlo, con tutti i limiti del caso, è Nichi Vendola). Perché, comunque le cose vadano a finire, chi si trova a passare per strada sappia anche, grosso modo, dove vuole andare.