Un altro giorno a Beirut
Il Libano attende i risultati dell'indagine sulla strage in cui fu ucciso il primo ministro Hariri
di Filippomaria Pontani
La scrittura alfabetica, quella di cui la cultura occidentale si è avvalsa da quasi trenta secoli, e di cui si serve anche l’articolo che state leggendo, nasce a Byblos, attuale Jbeil, 40 km a nord di Beirut. Lì è stato ritrovato un sarcofago reale del X sec. a. C., che fu trasportato al Museo di Beirut, dove – dopo essere stato salvato dalle distruzioni belliche tramite un’ingegnosa copertura in cemento armato, rimossa appena 15 anni fa – attrae oggi i visitatori non solo per via della sua preziosa iconografia di banchetto funebre (largamente debitrice ai modelli egizi e ittiti), ma anzitutto per l’iscrizione retrograda che reca sul bordo del coperchio, la prima epigrafe in alfabeto fenicio giunta fino a noi:
“Sarcofago costruito da Ittobaal, figlio di Ahiram, re di Gubla [il nome fenicio di Byblos], per suo padre Ahiram, quando l’ha eretto per l’eternità. Se un re tra i re, o un governatore fra i governatori, o un comandante sale a Gubla e apre questo sarcofago, che lo scettro del suo potere si spezzi, che il suo trono venga rovesciato, che la pace fugga via da Gubla…”.
È singolare che la storia dell’alfabeto – il medesimo che i Greci e poi i Romani adatteranno alle loro lingue – si apra con una maledizione contro i profanatori di tombe (peraltro inefficace, giacché il sarcofago fu saccheggiato in antico, e probabilmente nemmeno da un re). Ma, come spesso in Medio Oriente, anche questo dettaglio del trapassato remoto non è privo di una sua sconcertante attualità.
Nella Place des Martyrs, proprio dinanzi al martoriato Monumento cui accennavo ieri, è stata allestita un’ampia tenda sotto la quale sono esposte al pubblico Gedächtnis otto bare coperte di fiori bianchi, ogni giorno più freschi: la prima, isolata in un ambiente a sé, è quella dell’uomo politico che continua a essere il più effigiato (e, senza dubbio, amato) in tutti gli angoli del Paese, dal suq di Tripoli al caravanserraglio di Sidone ai ristoranti di Zahleh: si tratta dell’ex primo ministro Rafik Hariri, dilaniato insieme alla sua scorta (ecco gli altri 7 sarcofagi) e a tredici passanti da un’esplosione avvenuta dinanzi all’Hôtel St. Georges il 14 febbraio del 2005. Il destino dei Fenici moderni si gioca attorno a questa tomba, all’impellente necessità di non tradire la memoria dell’uomo cui si deve in larga parte, pur tra mille polemiche e contraddizioni, la rinascita del Libano postbellico; attorno all’eredità di una figura carismatica che per lunghi tratti seppe riunire in un unico slancio (e, oggi, accomuna in un’unanime sosta di preghiera sulla strada del lavoro o del divertimento) tanto i suoi correligionari sunniti quanto i drusi, i maroniti, e molte delle 18 confessioni in cui si spezzetta la fede del vieux pays.
Basta un’occhiata al cuore di Solidéré per osservare la quasi naturale compresenza dei luoghi di culto più disparati in un fazzoletto di terra: tra gli altri, San Giorgio dei greco-ortodossi, San Giorgio dei maroniti/cattolici (non stupisca l’insistenza sul patrono: secondo una fortunata tradizione, l’uccisione del drago avvenne proprio qui), la chiesa degli Armeni, la moschea antica fondata sulla chiesa crociata e quella nuova (eretta da Hariri stesso), con quattro minareti e una cupola che dispiega all’interno un’opulenta eleganza sui toni del rosso. Del resto, è libanese Ali Hassoun, il pittore del drappellone conteso al Palio di Siena di quest’anno, quell’effigie del San Giorgio (sempre lui) con la kefiah che tanto ha scandalizzato le gerarchie dei Talebani di casa nostra. E ancora, la residenza estiva del Presidente della Repubblica (che in base alla costituzione dev’essere un maronita: oggi è Michel Sleiman) è dal 1984 il lussuoso palazzo di Beiteddine, appollaiato sui monti Chouf a poca distanza dalla capitale, nel cuore della regione dei drusi, e edificato secondo i tipici principi costruttivi arabi: colpiscono le immagini delle riunioni di gabinetto convocate dall’attivissimo Sleiman in un contesto architettonico che fa di lui, fervente Cristiano molto legato al patriarca Boutros Sfeir, l’alter ego di un emiro.
Com’è noto, sulla morte di Rafik Hariri si è aperta un’indagine internazionale, affidata a un tribunale capeggiato dal canadese Daniel Bellemare: secondo molte fonti ufficiose l’atto d’accusa in procinto di uscire da questa annosa inchiesta sarebbe rivolto anzitutto contro membri del partito sciita Hezbollah. Da questa requisitoria – secondo le indiscrezioni – sarebbe praticamente assente lo stato che per primo e con maggior forza fu sospettato del misfatto, ovvero la Siria, e sarebbero interamente assenti i servizi segreti di Israele. Presentendo tali conclusioni dell’inchiesta, Nasrallah ha recentemente (con grande ritardo sull’inizio dei lavori del Tribunale) prodotto una serie di prove (soprattutto video e intercettazioni altamente sofisticate), che mostrerebbero l’assidua presenza e vigilanza del Mossad sui luoghi dell’attentato in quel San Valentino di cinque anni fa e nei giorni immediatamente precedenti; egli ha poi accusato di mendacio i testimoni sulle cui dichiarazioni si reggerebbe la (peraltro ancora presunta) accusa del Tribunale. Questa documentazione, palesata al mondo da Nasrallah nel messaggio del 9 agosto scorso, è stata consegnata a Bellemare tramite il governo libanese di unità nazionale (del quale – è bene ricordarlo – fanno parte anche ministri sciiti di Hezbollah, che pure s’identifica come partito di opposizione): il Tribunale ha decretato ora un supplemento di indagine.
La posta in gioco è altissima (“che la pace fugga via da Gubla…”): un’eventuale condanna di Hezbollah (o di suoi militanti non rinnegati dalla dirigenza) approfondirebbe all’inverosimile le tensioni fra sciiti e sunniti delle quali dicevo ieri (ecco il significato latente della sparatoria per un posto macchina). La tenuta del governo di unità nazionale, guidato con equilibrio ed equilibrismo dal figlio di Hariri, Saad, verrebbe messa gravemente in forse, e un’emarginazione politica di Hezbollah (che conta su una milizia bene armata, e di fatto più potente dell’esercito regolare almeno nelle regioni più sensibili, quali il Sud e la valle della Bekaa) potrebbe preludere a una vera e propria esplosione del Paese. D’altra parte, la delegittimazione preventiva del Tribunale speciale, messa in atto da Hezbollah e sposata da alcuni settori del governo (anche se contrastata dal premier), rischia di inficiare ulteriormente l’immagine internazionale del Libano, con conseguenze deleterie: la scaramuccia dell’albero (3 agosto) è stata (forse frettolosamente) addossata all’esercito libanese e rischia di provocare un significativo abbattimento del sostegno economico americano alle forze armate regolari. È bene sottolineare il pericolo insito in un simile passo, ché ogni indebolimento dell’esercito regolare rappresenta de facto un rafforzamento delle milizie di Nasrallah, cui già ora – sulla scorta della grande vittoria del 2006, immortalata nel film Lebanon, Leone d’Oro a Venezia 2009 – la gran parte dei Libanesi (anche Cristiani) guarda come l’unico credibile baluardo nell’eventualità di una nuova invasione israeliana; un’eventualità tutt’altro che remota, a giudicare dai movimenti di truppe al di qua e al di là della zona presidiata dall’UNIFIL. Del resto, pare che perfino il presidente Sleiman, dinanzi alla minaccia di tagli alle sovvenzioni militari, si sia rivolto ai generali iraniani per valutare l’eventuale acquisto di armamenti d’avanguardia.
Il Libano è uno scrigno inenarrabile di storia, e pochi siti archeologici impressionano quanto Tiro e Baalbek, l’antica Heliopolis: ambedue queste città, così come il fertile sud e la fertilissima valle dlla Bekaa, sono roccaforti di Hezbollah: addirittura, all’ombra delle potenti colonne dei conquistatori romani (le più grandi del mondo) gli ambulanti vendono a poche lire le magliette gialle con i minacciosi simboli dei resistenti di oggi. Ma il visitatore rimane colpito da certi accostamenti che mostrano la connaturata molteplicità culturale di questo Paese: lungo la strada, i poster e le bandiere a lutto in ricordo della recente scomparsa di Fadlallah, guida spirituale del Partito di Dio, si alternano a cartelloni pubblicitari di lingerie con ragazze provocanti e maliziose (spicca la marca Elissa) o a decine e decine di réclames di centri estetici per tutte le tasche: le cure di bellezza, evidentemente, non sono appannaggio del solo jet-set – chi abbia seguito Nadine Labaki nel fortunato film Caramel sa di cosa sto parlando. L’impressione è che l’Iran, per ora, sia lontano, e che anche in queste zone rurali l’Islam possieda una caratura diversa; il film di Bahman Ghobadi I gatti persiani, dove si tematizza l’asfissiante censura che costringe alla clandestinità la vita musicale di Teheran, ha ricevuto a Beirut un’accoglienza calorosa proprio in quanto descrive una realtà antifrastica rispetto al modello libanese. Ma, come avvertiva anni fa Gad Lerner, potrebbe essere un’impressione effimera: cosa accadrà quando l’11 settembre Ahmadinejad verrà a festeggiare la fine del Ramadan proprio a Beirut? E cosa accadrà quando, tra breve tempo il leader sciita iracheno Muqtada al-Sadr si trasferirà nella capitale libanese, dove due suoi nipoti studiano (il mondo è complesso) nei verdi viali della prestigiosa e centralissima American University?
Intanto Rafik Hariri dorme tra i fiori bianchi, e cammina fiducioso nel monumento che si erge in suo onore proprio davanti al Phoenicia e all’Holiday Inn. Nella coscienza di molti Libanesi (anche Cristiani), l’idea di una matrice unica dell’attentato del 2005 pare inverosimile. Un’azione così spettacolare nel cuore di una delle città più presidiate al mondo, e ai danni di una delle persone più protette al mondo (quel giorno, pare, i sofisticatissimi sistemi radar delle sue auto erano tutti fuori uso), non può non aver goduto di complicità molteplici, magari situate al crocevia di interessi convergenti anche se di diversa matrice. D’altra parte, secondo il quotidiano “Al Balad” il 60% dei cittadini considera la commissione d’inchiesta internazionale politicizzata e disonesta, alla luce del fatto che la pista siriana è stata presto abbandonata, che quella israeliana non è stata mai esperita, che vari giurati si sono dimessi nel corso degli anni, e vari imputati (segnatamente dei generali dell’esercito libanese) sono stati preventivamente detenuti per anni per poi essere scagionati in mancanza di prove a loro carico. Per questo il ruolo di Bellemare è delicatissimo: chiunque profanerà la memoria di quella tomba in Place des Martyrs comprometterà la stabilità del Paese e dell’intera regione.
Nessuna pace, del resto, potrà omettere di considerare la questione più spinosa, quella delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi che il Libano mal sopporta (con grande fatica è stato concesso loro l’altro giorno di accedere legalmente ad alcune professioni prima interdette; ma continua a non esistere per loro diritto di proprietà), e che Israele non vorrà mai riammettere in blocco nei propri confini, o in quelli del condendo stato palestinese (il problema è stato delineato con chiarezza da Giovanni Fontana). È sulla pelle di quei disperati, privi di un’identità da oltre 40 anni, che si gioca una delle partite più spietate dello scacchiere mediorientale: la comunità internazionale – dopo la scossa di Sabra e Chatila – sembra aver delegato la soluzione umanitaria di questo problema a un’agenzia, l’UNHCR, che non ha né i mezzi né le capacità per costruirla. E se sulla sicurezza e sui confini degli stati si potrà forse trovare un pur faticoso compromesso, sulla questione dei rifugiati il Libano teme che l’agenda dei nuovi negoziati dettata dagli Americani, così come l’opera di isolamento di Hezbollah in seguito al dossier Hariri, inducano a far passare tacitamente la linea israeliana di un assorbimento dei profughi all’interno degli stati in cui si trovano ora (si vedano le allarmate parole di Scarlett Haddad su “L’Orient le jour” del 25 agosto).
Quando verrà la pace in questa terra, una delle più dolci, fertili e ricche di storia del mondo? Quando si potranno finalmente estendere e approfondire gli scavi di Tiro (in mano israeliana fino al 2000, l’altroieri), dove scoperte sensazionali aspetterebbero gli archeologi, se solo ve ne fossero le condizioni (basti considerare l’imponenza dell’ippodromo o la ricchezza delle terme e della palestra in riva al mare, là dove affiorano i resti del porto fenicio)? Quando si potrà superare quel blocco che da oltre sessant’anni (lo ricorderanno bene i lettori de Gli scali del Levante di Amin Maalouf) impedisce ogni comunicazione fra Tiro e Haifa, spezzando una striscia costiera pregiatissima sin dall’epoca ellenistica, e una continuità secolare impersonata, tanto per dirne una, da Gesù?
Bokra. “Bokra” in arabo vuol dire “domani”, ma implica anche un concetto indeterminato di futuro. Per ora, tra le liti per un parcheggio e le minacce per un verdetto straniero, il cielo si stende cupo sopra i bianchissimi scogli del Piccione: l’unica certezza è che nel vieux pays circolano – e imperterrite continuano ad arrivare – troppe armi che non serviranno per uccidere il drago. Scordiamoci che l’integrità dell’utopia libanese, così radicata nei tempi del protettorato francese e così aperta nel trilinguismo strutturale degli abitanti (arabo – francese – inglese) possa riguardarci poco: dopo tutto, se Alessandro Magno non avesse conquistato Tiro, nell’assedio più duro della sua vita, la storia del mondo avrebbe preso un’altra piega; e proprio a Tiro, là dove oggi scorrazzano le camionette bianche con su scritto “UN”, nacque un tempo la più bella figlia di Agenore, di nome Europa.