Un giorno a Beirut
A Beirut, dopo il traffico e la dovizia delle nuove architetture, la prima cosa che colpisce sono i segni delle pallottole
di Filippomaria Pontani
Le onde spumeggiano fragorose sul faro di Beirut, mentre il Manara Palace Café, uno dei più noti della Corniche, si riempie di coppie e famiglie pronte a festeggiare l’iftar, o di giovani intenti a fumare il narghilè. Il sole tramonta, la brezza del mare si frange sul molo, e la mia limonata è dolce, zuccherata al punto giusto. Guardo passare le navi, tante come si confà a uno dei porti più importanti del Mediterraneo, e mi volto indietro a guardare la costa, fitta di costruzioni in un agglomerato ininterrotto che arriva fino a Jounieh e oltre: la lisca di terra che rappresenta la spina dorsale del Libano. In tutto il centro ormai, da Manara a Solidéré ad Achrafiye, le riqualificazioni e i restauri – spesso controversi – sono compiuti o in via di completamento: comode arterie di scorrimento e ampi viali con aiole sono fiancheggiati da nugoli di gru e da impalcature che progrediscono a vista d’occhio giorno dopo giorno; nel cielo pesante svettano grandi alberghi nuovi di zecca e grattacieli aerodinamici progettati per contenere spaziosi appartamenti di gran lusso, come si vede nelle réclames che popolano manifesti, giornali e riviste, a cominciare da «Cedar Wings», il mensile della Middle East Airlines che accoglie chi arriva dal cielo.
Sono passati vent’anni dalla fine della guerra, vent’anni di difficoltà e tensioni che però non hanno fermato i massicci capitali degli Arabi (i Sauditi, gli emiri etc.) cresciuti nel mito del Libano come centro del gusto e della bellezza, e bramosi di investire i petrodollari nella resurrezione di quell’inestimabile capitale simbolico: ecco perché è così facile, per strada, incontrare macchine targate Dubai. Finisco la mia limonata, mi alzo à contrecoeur dal tavolo sul lungomare, quando le onde esplodono un colpo più forte, ma stavolta non vedo i consueti lapilli d’acqua a lambire il molo; no, non sono le onde, il colpo viene dalla terra e ha un che di sordo e repentino, mentre più rapidi e isterici sono quelli che seguono: si tratta di spari, di un paio di raffiche. Ormai ho imparato, tre mesi fa a Gerusalemme: nel mondo arabo i matrimoni si festeggiano così, e forse anche la fine del digiuno odierno, in qualche quartiere della periferia, sarà stata ritenuta degna di una sventagliata di mitra. Pago e torno a piedi verso Downtown.
A Beirut, dopo il traffico e la dovizia delle nuove architetture, la prima cosa che colpisce sono i segni delle pallottole. Lo ha mostrato meglio di chiunque altro l’artista palestinese Mona Hatoum, che ha intitolato “Witness” la provocatoria miniatura in candida porcellana del monumento ai Martiri che si erge nella piazza più grande della città: si tratta di un gruppo bronzeo di tre personaggi simbolici (il riferimento è alla resistenza anti-ottomana durante la I guerra mondiale), tutti variamente mutilati o bucherellati, che quasi recano nelle loro carni sbrindellate il tormento della storia di un popolo. Del resto, basta entrare nella chiesa greco-ortodossa di San Giorgio, a un passo da Place des Martyrs, per discernere – pur sotto i recenti restauri – i tipici fori circolari che costellano le pareti affrescate. Poco più in là, specie nelle strade meno trafficate, occhieggiano indiscreti qua e là edifici ancora pericolanti e in attesa di restauro, oppure lasciati in piedi tali e quali come muti, perpetui memento della furia bellica. L’Holiday Inn, anzitutto: subito dietro le modernissime torri del Phoenicia Intercontinental Hotel, che affaccia sulla marina vecchia, lo scheletro di quell’albergo un tempo prestigioso appare vivisezionato da proiettili di ogni tipo e grandezza. Soltanto guardandolo dal basso, e percorrendo la zona della Linea verde (che corre, per la folgorante ironia dei toponimi, lungo la Via di Damasco), si può intendere la fedeltà e il genio di Ari Folman nel congegnare la scena eponima di Valzer con Bashir, quella in cui il protagonista – soldato israeliano nell’invasione del 1982 – danza quasi immemore di sé sotto i tiri incrociati dei cecchini.
È quasi buio ormai, e mentre arrivo ai Souks, il nuovissimo centro commerciale appena dietro Place de l’Étoile, scaccio i fantasmi di un passato che non ho vissuto: soppeso fra me e me la vitalità di una città dove la Hatoum espone senza tema le sue installazioni (presso il neonato Beirut Art Center, uno spazio culturale aperto e innovativo che le dedica una personale che abbraccia anche alcune opere esposte mesi fa a Venezia presso la Querini Stampalia); dove le donne girano da sole e senza velo con negli occhi uno spavaldo incanto senza pari (miss America 2010, la venticinquenne Rima Fakih, è di origini libanesi); dove il Festival du film libanais ha appena radunato centinaia di spettatori di ogni sesso e religione dinanzi a difficili cortometraggi non sempre coartati negli stretti binari della realtà, della storia o della politica. Per non parlare dei Festival d’estate, anzitutto quelli della vicina Beiteddine e della leggendaria Baalbek, dove negli ultimi anni si sono esibite tutte le maggiori star della musica internazionale, classica e moderna, senza eccezioni. E immerso in tali pensieri m’incammino verso rue Monot per contare i nights che stanno per aprire; per fare un salto in quel paradiso del design che è Luanatic, prima che chiuda; per curiosare nella vetrina di RectoVerso, una libreria “di tendenza” che ha sei mesi di vita e spera in un luminoso futuro. È forse questa la città con le migliori chances di (ri)diventare la capitale del Medio Oriente, se tutto andrà secondo le migliori previsioni.
Arrivo a Sodeco, dove i lamentevoli resti di una splendida magione ottocentesca ospiteranno il Museo della memoria di Beirut, progetto nato in associazione con il comune di Parigi (del resto, presso il Centro culturale francese, proprio lungo la via di Damasco, una mostra di Gilbert Hage raccoglie splendide foto della capitale in macerie). Si ode ancora qualche raffica isolata, in lontananza. Questi festeggiamenti. Ho deciso che dopo cena tornerò a Hamra per assistere a un concerto di oud del promettente giovane Mustafà Said. Il tassista mi chiederà le solite diecimila lire (per uno strano ricorso, le lire libanesi valgono oggi grosso modo quanto le nostre vecchie lire soppiantate dall’euro) e cercherà di raccogliere per strada altri passanti diretti verso il medesimo quartiere. In un inglese confuso, mi chiederà se ho sentito gli spari, e intrufolerà due parole “problem in Beirut, problem”. Null’altro apprenderò al concerto, nulla dai camerieri intenti a seguire l’attesissimo messaggio di Nasrallah, nel quale il capo sciita invoca armi e protezione dai paesi arabi e – prevedibilmente – dall’Iran.
Solo l’indomani, dai giornali del mattino, avrò la misura del mio errore. Quegli spari erano in realtà un conflitto a fuoco scoppiato nel quartiere di Burj Abi Haidar, per un pretesto qualsiasi: un capoccia locale di Hezbollah voleva parcheggiare la macchina dinanzi a una moschea tradizionalmente in uso alla fazione sunnita Al Ahbash: dall’alterco alle armi automatiche il passo è stato breve, e almeno tre persone sono rimaste uccise, scatenando piccoli focolai di scontri in tutta Beirut ovest, come non accadeva dal maggio 2008 (quando il governo tentò di smantellare il network delle telecomunicazioni di Hezbollah). È poi intervenuto subito l’esercito, prevenendo l’escalation con posti di blocco e spari in aria. Le autorità di ambedue le organizzazioni si sono affrettate a ridimensionare la portata della scaramuccia, qualificandola come “personale e non politica né religiosa”. Ciò che colpisce è che la notizia rimarrà praticamente sconosciuta ai media occidentali, meriterà un titolo su Haaretz, e viceversa campeggerà cubitale sulle prime pagine del “Daily Star”, de “L’Orient le jour” e di “Al-Balad”, per non citare che i quotidiani libanesi che escono in un’edizione inglese o francese. Sui piombi di quelle pagine si disegna il rinnovato terrore della china inarrestabile, il fantasma delle pallottole che costellano un passato recentissimo.
Lebanon, pity the nation (come recita il titolo del bel saggio di Robert Fisk). Con l’eccezione – parziale – di Belgrado e Sarajevo, a nessun’altra città nella nostra parte di mondo è toccato nel Dopoguerra di risorgere dopo anni di sparatorie e bombardamenti, condotti con una furia distruttiva che ha rivelato gli aspetti più animaleschi della natura umana. Nessuna città in assoluto ha vissuto così a lungo nel terrore da perdere larga parte dei propri abitanti, e tutte le speranze: chi legga il breve City Gates di Elias Khoury (l’autore di Yalo, edito in Italia da Einaudi) avrà un’idea, per quanto letteraria, della dimensione biblica di questo fenomeno; chi guardi certe scene delle crude fantasmagorie di Christophe Karabache avrà contezza della penetrazione dei kalashnikov nella carne viva del Paese.
Ma ora che tutto questo, esternamente, sembra alle spalle, il sentimento della precarietà dell’equilibrio conquistato è pervasivo, forse non impediente ma ubiquo, e si riflette – più ancora che nel fatalismo degli abitanti – in un discorso pubblico che si sostanzia dell’appeasement come di un mantra, nella consapevolezza che i conti non sono stati chiusi, e forse non si chiuderanno mai: perché altrimenti proibire all’ultimo momento, nel sullodato Festival cinematografico, la proiezione di Chou sar?, il documentario di De Gaulle Eid che attraverso una storia personale alza i tappeti sotto i quali l’amnistia del 1993 ha frettolosamente coperto le lacrime e i rancori della guerra civile?
Un mantra chiaramente troppo debole per soddisfare i cittadini continuamente sottoposti – specie in estate – al razionamento della corrente elettrica, fonte di grandi affari per la mafia dei generatori, e facile sponda per chi (come Nasrallah nel messaggio di ieri) invoca la tecnologia iraniana per costruire una centrale nucleare in Libano; troppo debole per dare una prospettiva agli abitanti del quartiere armeno senza speranza di libertà, effigiati da Vatche Boulghourjian nel cortometraggio che ha vinto il Festival du Film; troppo debole, a maggior ragione, per placare i Palestinesi che vivono da decenni in condizioni spaventose nei campi profughi di Sidone, di Tiro, di Tripoli – quest’ultimo, Nahr-el-Bared, in fase di ricostruzione con l’aiuto degli Europei (e degli Italiani in particolare) dopo i gravissimi scontri del 2007, durante i quali il campo fu bombardato dall’esercito.
Ma in quel mantra, e nella scommessa quasi inconsulta di un Paese come il Libano di oggi, sta forse l’unica remota speranza di una pace in Medio Oriente. Ci penserò domani, lontano da qui, con più calma; ma intanto me ne illudo contemplando il gusto raffinato delle famiglie sedute nei tavolini dell’Étoile, l’eleganza perfetta (nulla da invidiare alla fumante Milano: semmai il contrario) delle giovani coppie di ogni religione che entrano al “Buddha”, locale notturno fra i più ambiti. Siamo a pochi passi dalla moschea di Omar (che è, tal quale, la cattedrale dei Crociati persa ai mamelucchi nel 1291), e a pochissimi passi dagli scarsi resti di quella che è stata – all’epoca del tardo impero – la scuola di diritto più importante della storia.