“Non piangere, figliolo”
Sono stati i mondiali degli sconfitti, e Pindaro ci avrebbe sguazzato
di Filippomaria Pontani
In molti Paesi, ben più delle Olimpiadi, sono i Mondiali di calcio a rappresentare l’evento sportivo tradizionalmente più importante, “condiviso” da tutti gli strati sociali e soprattutto in grado di stabilire un dialogo immediato e sicuro con i popoli vicini. Questo fenomeno, che spiega e alimenta a un tempo la fortuna del temerario progetto di Jules Rimet (un’idea vecchia in fondo di soli 80 anni, e spiritualmente non del tutto omologa alla riscoperta dei Giochi antichi da parte del barone de Coubertin), giustifica ovviamente l’attenzione spasmodica dei media, nonché i molti sovrasensi morali, storici e politici che di solito vengono abbinati all’evolversi dell’evento sportivo. Chiunque apra un’ode di Pindaro vi troverà un analogo anelito all’illustrazione degli esiti delle gare in senso etico, parenetico, quando non teologico; e con Pindaro siamo nel V secolo avanti Cristo.
Nel campionato testè concluso vi era almeno un fatto oggettivo che rendeva inevitabile una lettura “allegorica”: il setting africano, anzi sudafricano. Era almeno da Argentina ’78 (il Mundial di Videla) che la situazione politica del Paese ospitante non assumeva un ruolo così importante, interferendo con la dimensione sportiva al punto da farla passare talora in secondo piano (della finale si ricorderà molto più il giro d’onore di Mandela che non i calcioni degli olandesi o il gol di Iniesta; le pur pregevoli giocate di certi match giocati al Green Point Stadium parevano poca cosa dinanzi all’aura dell’antistante Robben Island). Tuttavia, come era forse inevitabile, in più d’un caso le straordinarie bellezze paesistiche del Sudafrica hanno ricevuto più attenzione delle laceranti contraddizioni in cui ancor oggi si dibatte quel Paese e il continente intero: non molti avranno ricordato che Germania-Spagna si è giocata a pochi metri dalla sede del più grande, e più fallimentare, vertice mondiale sull’AIDS, tenutosi a Durban esattamente dieci anni fa; né ho sentito evocare spesso la sanguinosa imboscata di cui solo sei mesi or sono rimase vittima la Nazionale del Togo (una delle più talentuose, si pensi ad Adebayor), in rotta verso l’Angola per la Coppa d’Africa.
Ma Pindaro va in cerca dei momenti-chiave, delle cerniere, delle curvature del destino: quella di quest’anno si è avuta al minuto 120 di Ghana-Uruguay, quando l’Africa (unita per una volta non sotto l’egida della retorica di Gheddafi, ma nella più cristallina solidarietà alla Senghor) ha goffamente spedito sulla traversa il rigore che valeva la semifinale. Chi ricorda cosa capitò da noi a Gigi Di Biagio e allo stesso Roberto Baggio all’indomani di analoghi calamitosi infortuni (e non parliamo dell’accoglienza riservata in Colombia nel ’94 al povero Andrés Escobar, il cui assassino è peraltro libero da 5 anni), non potrà non restare colpito dai messaggi di conforto che si sono succeduti in Ghana e fuori (anche da parte di Mandela in persona) per consolare lo sfortunato tiratore, Asamoah Gyan, che è peraltro l’attaccante più forte del suo Paese, nonché l’autore del portentoso 2-1 sugli Stati Uniti negli ottavi.
D’altra parte, l’Uruguay – mattatore anche dei padroni di casa con un 3-0 impietoso quanto risolutivo per stabilire la differenza reti del gruppo A – aveva probabilmente un conto da saldare con l’Africa sin da quel drammatico 3-3 col Senegal che gli costò l’eliminazione nel 2002; e poi, narrano le cronache d’Olimpo, Eupalla ha impetrato da Zeus che non uscisse il giocatore di gran lunga più bravo di questo torneo, biondo, indomito e generoso come Achille: l’atletico Diego Forlan.
A quel Ghana – una squadra giovane e di ottimo livello, che non avrebbe sfigurato fra le prime quattro – mancava drammaticamente l’infortunato Essien, l’unico a giocare in un club di primo piano (le Nazionali che attingono non all’Inter o al Manchester, ma al Palermo o allo Stade Rennais suscitano un’istintiva simpatia); così come a questo Mondiale mancava drammaticamente l’Egitto, che in novembre uno spareggio carico di violenza (e di pesanti retroscena politici) aveva eliminato a vantaggio dei modestissimi algerini. Ma se il livello medio rimarrà quello che si è visto, vi è ragione di credere che tra quattro anni un Egitto redivivo, un Ghana più maturo, una Costa d’Avorio più fortunata o un outsider come il Senegal possano arrivare a insidiare il podio.
Un concetto-cardine nella Weltanschauung pindarica (e di tutta la cultura greca arcaica) è quello della hybris, che viene sempre punita dagli dèi: gli esempi qui si potrebbero moltiplicare, se consideriamo gli allenatori sbruffoni: Lippi, Capello, Domenech… Non sarà dunque un caso, nella nemesi distributiva, che i quattro signori arrivati in fondo siano tutti gentiluomini dal modesto passato di calciatore, e dalle dichiarazioni per lo più misurate. Il paradigma di superbia punita lo fornirà però in perpetuum la rivincita di Thomas Müller su Diego Armando Maradona, che non più di quattro mesi fa aveva disdegnato di sedersi al fianco del ventenne attaccante tedesco in conferenza stampa, sostenendo di non sapere chi egli fosse e rivendicando per sé ben altro rango; il gol rifilato da Müller a un’Argentina allo sbando dopo soli due minuti del quarto di finale, ha tutto il profumo della teodicea.
Tra i risvolti protrettici del Mondiale appena concluso si suole indicare la primazia del modello calcistico spagnolo, basato su un’attenta coltivazione dei vivai. Pindaro senz’altro sfrutterebbe da par suo questo argomento, e tuttavia uno sguardo sobrio potrebbe suggerire qualche maggiore cautela. Anzitutto va ricordato che la Spagna è basata da sempre sui blocchi del Barcellona e del Real, variamente intersecati e aumentati di singoli elementi allotri (nella nostra fattispecie, l’essenziale David Villa, che gioca nel Valencia, e il non meno vitale Capdevila, che è del Villarreal): chi non ricorda – quando il Real era ancora capace di passare gli ottavi della Coppa dei Campioni – l’ottima squadra in cui Hierro, Raul e Morientes tenevano compagnia a Puyol, Sergi e Guardiola? Eppure, non vincevano nulla, anche quando – come solo quattro anni fa – partivano col botto (4-0 all’Ucraina, per poi finire miseramente beffati negli ottavi da un colpo di testa di Vieira).
Del resto, non è da pochi anni che la cantera del Barcellona risulta uno dei vivai più interessanti del mondo. La fortuna della Spagna risiede essenzialmente in due elementi: ha trovato una generazione di centrocampisti eccezionali (Xavi, Iniesta, Xavi Alonso, Fabregas: gente così non si comanda, come non si comandano i Baggio e gli Scirea), e ha nel suo campionato una squadra – il Barcellona – capace di costruire su di essi (e su difensori come Piqué e Puyol, oltre che su stranieri opportunamente allevati come Messi, o semplicemente comprati come Deco, Henry e il rimpianto Eto’o) un progetto vincente, anche grazie ai preziosi insegnamenti lasciati da allenatori venuti dal nord (su tutti, ironia del destino, gli Olandesi van Gaal e Rijkaard).
A Italia e Inghilterra, accomunate nella sventura di Sudafrica 2010, si imputa scarsa lungimiranza sul secondo punto, ovvero una politica di club miope e una Federazione troppo debole (quando non, com’è il nostro caso, apertamente corrotta): questa critica è senz’altro fondata, tanto che molti si intristiscono nel pensare che l’Internazionale campione d’Europa sia una squadra italiana solo in grazia dei soldi del petroliere che la possiede (a Chelsea e a Manchester, admittedly, stanno messi pure peggio). Tuttavia troppo spesso si tende a ignorare il primo punto: la mancanza di un movimento calcistico sano va di pari passo con la drammatica scarsità di talenti forniti da madre natura, un limite che può essere superato grazie a uno speciale scherzo del destino (vedi Germania 2006; ma in fondo la vicenda francese, come mostrano i risultati delle competizioni del 2002, del 2008 e – segnatamente – del 2010, è perfino più accidentata della nostra), ma non può rimanere a lungo nell’ombra.
In Inghilterra, dove il naufragio di don Fabio ha lasciato ferite profonde, in pochi recriminano ancora sul gol-fantasma di Lampard alla Germania; del resto, chiunque abbia guardato Inghilterra-Algeria ha una precisa contezza del gioco offerto quest’anno dalla mitica nazionale dei tre leoni. Piuttosto, il giorno prima della finale la “poetessa laureata” del Regno Unito, Carol Ann Duffy, ha dedicato proprio ai Mondiali il testo che traduco qui di seguito (uscito sul “Guardian” di sabato 10 luglio): probabilmente potrebbe applicarsi non solo alle maglie bianche dei calciatori di Sua Maestà.
La maglia
Dopo, lo trovai da solo al bar e gli chiesi cosa avesse. È la maglia, disse. Quando la indosso mi si attacca alla schiena come un sudario, o un giustacuore avvelenato di Grimm che filtra sulla mia pelle il suo incantesimo, il tatuaggio più orrendo.
Prima di infilarmi la maglia sulle spalle faccio una doccia e mi rado, ho un odore da sogno; ma la maglia inacidisce il mio profumo col sudore e la puzza della paura. Ha il mio numero.
Gli versai un altro sorso. Prosegui, figliolo. Proseguì.
Volevo gareggiare da quando ero un bambino, ma ora che lo faccio mi assalgono nausee, debolezze, paranoie.
Tutta la notte, sopra l’hotel della squadra, la luna è il pallone in un calcio di rigore. Decine di migliaia di stelle ostinate mi fischiano. L’arbitro è un barbagianni.
Il vento è una folla, lunga quarant’anni, e recita una canzone sporca sulla mia donna. È quella fottutissima maglia. Iniziò a gonfiarsi di lacrime come la camicetta di una ragazza grossa e provai un fiotto di pietà.
Non piangere, gli dissi, alla fine dei conti tornerai a guadagnare centomila a settimana, giocando per il City.